lunedì 30 luglio 2012

Perché San Paolo sta con Assad di Giulio Meotti


In Siria gli islamisti cacciano i “cani cristiani”. I vescovi si aggrappano al regime e temono di fare la fine delle chiese russe nel 1917. E’ guerra confessionale nella culla del cattolicesimo

I cristiani di Siria credono che la regione di Homs sia protetta dalla Vergine. La chiesa di Umm al Zunnar, che sorge nell’epicentro più sanguinoso della guerra civile siriana, ne custodisce la sacra cintura. La reliquia fu scoperta nel 1953, nascosta sotto l’altare. Secondo la tradizione, la cintura era stata portata in India da san Tommaso, per poi essere ricondotta in Siria nel 394 assieme ai resti dell’apostolo. Ma quella che un tempo era una delle città simbolo del cristianesimo di san Paolo si è svuotata dei cristiani. Numerose agenzie di stampa cattoliche ma non solo, a cominciare dalle ong dei diritti umani, parlano di “esodo di massa dei cristiani” da Homs, dove i guerriglieri islamisti che guerreggiano con il regime di Bashar el Assad hanno usato i cristiani come scudi umani per proteggersi dalle cannonate dell’esercito.
Il prete ortodosso Masimox al Jamal ha denunciato che soltanto “cento cristiani” restano a Homs. “I ribelli hanno ucciso duecento cristiani, comprese famiglie intere con bambini piccoli”, ha detto un prelato al Barnabas Aid, che da decenni si occupa delle persecuzioni anticristiane nel mondo. Il battaglione islamico al Faruq, affiliato al Free Syrian Army, braccio militare dell’opposizione al regime, avrebbe imposto la Jizya ai cristiani che vivono nelle zone che si trovano sotto il loro controllo (è la tassa che all’epoca del califfo l’islam faceva pagare alle minoranze, i “dhimmi”).
A giugno diecimila cristiani hanno lasciato la città di Qusayr in nome di una pulizia religiosa imposta con un ultimatum dai fondamentalisti islamici. “Cristiani, lasciate Qusayr entro sei giorni”, recita un editto distribuito dalle moschee della città e riportato anche dalla agenzia di stampa del Vaticano, Fides. A Qusayr sono rimasti appena milla cristiani degli originari 90 mila.
Elizabeth Kendal ha scritto un report per il Religious Liberty Prayer Bulletin: “138 mila cristiani hanno lasciato Homs, dove le chiese sono state occupate dalle forze ribelli. Per i jihadisti, i cristiani che rifiutano di sostenerli vanno torturati, espulsi o uccisi”. L’agenzia Fides riporta dell’ultima esecuzione ai danni dei cristiani. Il gruppo islamico ribelle Brigata dell’islam ha fermato l’auto di un ufficiale cristiano, Nabil Zoreb. Ha fatto scendere la moglie, Violetta, e i due figli, George e Jimmy, e li ha giustiziati sul posto. “Questo spiega la diffidenza dei cristiani verso l’opposizione al regime”, ha scritto Samir K. Samir, gesuita libanese e islamologo molto vicino a Papa Benedetto XVI. “L’opposizione, che all’inizio era contro la dittatura, la tortura, l’ingiustizia e a favore dei diritti umani, poco a poco ha virato verso la tendenza radicale islamista (Fratelli musulmani e salafiti) per divenire alla fine una lotta fra due tendenze musulmane: sunniti e sciiti. Fra due mali – la dittatura laica baathista e la dittatura religiosa wahabita) – i cristiani preferiscono la prima, che essi conoscono già e con la quale cercano di convivere da tempo”.
Ecco spiegato perché nello spettacolare attentato che dieci giorni fa ha decapitato la cupola militare di Assad, il ministro della Difesa rimasto ucciso, Daoud Rajha, dunque l’uomo che per dieci mesi ha gestito la repressione dell’insurrezione, apparteneva alla minoranza cristiana. La nomina di un cristiano alla guida della Difesa era stato un fatto storico, visto che l’ultimo capo di stato maggiore cristiano era stato il generale Youssef Chakkour nel 1973.
Un documento appena diffuso dal Patriarca melchita Gregorio III Laham, leader della più numerosa comunità cattolica presente in Siria, ha cercato di difendere i cristiani dall’accusa di connivenza con la nomenclatura di Assad. “Lo stato non ha mai rivolto ai pastori una indicazione o un invito a fare una qualche dichiarazione o ad adottare una qualche posizione”, recita il testo. Il patriarca Gregorio denuncia una “campagna condotta contro i pastori delle chiese in Siria”, accusati di collusione con il regime.
Nella comunità cristiana, che rappresenta il dieci per cento della popolazione, scrive il Christian Post, molti pensano a emigrare, temendo, nel caso di una caduta di Assad, che questi venga sostituito da un regime islamico e che cresca l’intolleranza, come in Egitto e Iraq. Samer Lahham, direttore dell’ufficio ecumenico del patriarcato ortodosso di Damasco, ha detto che “i cristiani temono che ci sia un piano per trasformare la Siria in un sistema religioso”.
La Siria è una culla della cristianità, qui vennero a predicare san Paolo e san Barnaba direttamente da Gerusalemme. L’ex persecutore di cristiani proprio lì ha iniziato a “proclamare Gesù Figlio di Dio” nelle sinagoghe. Dopo Betlemme, Nazareth e Gerusalemme, i più importanti luoghi di pellegrinaggio si trovano in Siria: posti come il santuario rupestre di Santa Tecla, o il santuario di Nostra Signora di Saidnaya, che conserva un’icona attribuita a san Luca. La Siria oggi è al settanta per cento islamico-sunnita, ma è da alcuni decenni governata dalla minoranza sincretista alawita (dieci per cento) di cui fa parte Assad, e all’interno dell’opposizione armata è preponderante il ruolo dei Fratelli Musulmani. Uno scenario islamico che preoccupa anche i curdi. Per il leader del Consiglio nazionale curdo Sherkoh Abbas, i Fratelli musulmani vogliono instaurare al posto di Assad “un regime islamico”, senza spazio per le minoranze. Per questo i cristiani, con le loro comunità e i vescovi, restano nei ranghi dei sostenitori del regime di Assad, i cosiddetti “mnehbbkyeen”, i “ti amiamo”. L’arcivescovo maronita Samir Nassar dice che “molte famiglie cristiane, terrorizzate, pensano solo a come lasciare il paese. Decine di cristiani a Homs sono stati usati come scudi umani. Hanno chiesto di lasciare il quartiere ma le fazioni dei ribelli l’hanno impedito”.
I proclami degli islamisti non lasciano spazio ai dubbi. Adnan al Aroor, sceicco esiliato in Arabia Saudita e fra i leader della rivolta anti Assad, ha incitato i seguaci, attraverso appelli e sermoni, a “fare a pezzi, tritare e dare in pasto ai cani” la carne dei cristiani, bollati come “collaborazionisti”. Hassan Harba, un capo sunnita della ribellione, ha detto che “tutti gli alawiti vanno massacrati”. E i cristiani? “Gli informatori vanno eliminati”.
Belajia Sayaf, madre superiore di Maalula, antico villaggio cristiano a una quarantina di chilometri dalla capitale Damasco, ha attaccato “l’occidente che arma la mano dei fondamentalisti islamici decisi a distruggere secoli di pacifica convivenza tra le religioni e le minoranze siriane. I cristiani se ne vanno, a migliaia. Hanno paura. Non vogliono tornare nelle catacombe”. Gli sfollati raccontano che a Hama quasi tutti i ventimila cristiani sono stati cacciati dagli islamici. Anche Paolo Dall’Oglio, italiano gesuita fondatore della comunità monastica di Mar Musa, ha dovuto abbandonare dopo trent’anni il suo colle a nord di Damasco.
Nei quartieri misti delle città dove impazza la guerra civile, l’ottanta per cento dei cristiani sono partiti e si sono stabiliti presso amici o parenti nelle regioni cristiane, spesso nei rifugi sulle montagne. Il paese si è spaccato attorno alle linee confessionali. Musulmani sunniti non entrano più nei quartieri alawiti e viceversa.
Uno slogan della resistenza anti Assad promette scenari poco edificanti: “I cristiani a Beirut e gli alawiti al muro”. C’è persino chi ricorda che nel 1327 gli alawiti furono colpiti dalla famosa fatwa emessa da Ibn Taymiya, fondatore dell’islam wahabita, che li definì “più infedeli dei cristiani e degli ebrei”, incitando i musulmani alla guerra santa contro di loro (la persecuzione contro gli alawiti durò secoli e terminò solo con la dissoluzione dell’impero ottomano dopo la Prima guerra mondiale).
Alcuni giorni fa, parlando all’agenzia di stampa cattolica Asia News, Giuseppe Nazzaro, vicario apostolico di Aleppo, ha denunciato il jihad proveniente dai paesi limitrofi: “Ci sono forze straniere che non vogliono la pace in Siria. Il paese è ormai preda di guerriglieri provenienti da Tunisia, Libia, Turchia, Pakistan e altri stati islamici. Armi e denaro passano attraverso i confini e alimentano questa spirale di violenza”. Per questo George Louis, prete cattolico della parrocchia di Qarah, presso Homs, ha chiamato gli islamisti “vampiri che uccidono in nome di Dio”.
Cresce la paura tra i cristiani di Damasco, dove cominciano a circolare delle “liste di proscrizione”. “C’è il pericolo che si apra la stagione delle vendette e che i civili di Damasco siano trattati come ‘traditori’ perché non hanno preso parte attiva alla rivoluzione”, si legge in un’altra notizia, giunta sempre tramite Fides.
“Se la situazione peggiora in Siria, se dovesse emergere un regime più duro di quello attuale, come un regime dei Fratelli musulmani, saranno i cristiani a pagarne il prezzo più alto, in termini di massacri o di esodo”, ha scandito il patriarca della chiesa cattolica maronita, Bechara Rai.
Se è vero che alcune personalità cristiane di spicco sono passate all’opposizione (da Michel Kilo a Fayez Sara) e che intellettuali cristiani denunciano “l’eccessiva identificazione delle chiese con il regime”, tutti i capi delle antichissime comunità cristiane sono fra i maggiori sostenitori del regime di Assad, anche nell’ora più cupa della repressione. Alcuni di loro invitano alla prudenza, temendo l’accusa di “collaborazionismo” e l’eventuale caduta del regime. Il Figaro ha riferito di omelie domenicali nelle chiese in cui i prelati invitano i fedeli a sostenere il regime. E non sono soltanto gli ortodossi ad appoggiare apertamente Assad. “Il presidente è una persona di grande cultura”, ha detto Gregorios Elias Tabé, arcivescovo cattolico di Damasco, che chiama “terroristi” i ribelli anti Assad.
I cristiani, all’ignoto, preferiscono un regime fondato sulla forzata laicizzazione della vita pubblica, ereditata dal sistema mandatario francese, e l’azzeramento delle discriminazioni su base religiosa. Insieme al Libano, la Siria è oggi l’unico paese arabo dove l’islam non è religione di stato e la religione non è riportata sulle carte d’identità. Nei censimenti ufficiali non si fa cenno all’appartenenza religiosa. Soltanto i documenti dello stato civile ne fanno menzione, il che ha il vantaggio di mettere i cristiani al riparo dalle disposizioni della sharia e costituisce una delle ragioni per le quali si trovano abbastanza a loro agio sotto quel regime.
A spiegare il dilemma cristiano è stato il professor John Myhill, che ha scritto un paper per il centro studi israeliano Besa della Bar Ilan University. La sua tesi è che in un medio oriente dominato demograficamente e culturalmente dall’islam sunnita, alawiti, cristiani e perfino ebrei siano dei partner naturali.
Quando nel 2000 Hafez al Assad, padre di Bashar, passò a miglior vita, il patriarca ortodosso Ignatius Hazim ordinò alle chiese di far suonare a lutto le campane. Già Assad padre aveva molti cristiani fra i consiglieri (Gebran Kuriye per la politica interna e Assad Elias per quella estera). “I cristiani stanno con Bashar el Assad”, ha detto Yohana Ibrahim, arcivescovo siriaco di Aleppo. Il vescovo ausiliare Luqa Khoury ha persino organizzato show ecumenici a favore del regime. “Se Assad verrà rovesciato, i cristiani saranno a rischio”, ha avvertito Mtanius Haddad, apocrisario del patriarca Gregorio.
La Siria ribolle di odio religioso represso dal regime. A Hama, una città della vallata dell’Oronte, dal 2 al 28 febbraio 1982 circa dodicimila uomini delle truppe scelte tra i ranghi alawiti, agli ordini diretti del presidente Assad, sterminarono un numero ancora imprecisato di fondamentalisti islamici con le loro famiglie. Quanti? Le valutazioni dicono venticinquemila persone. A Damasco lo presentavano come un test vitale per il regime.
A far scattare il massacro fu l’attacco degli islamisti alle sedi del Baath e l’eccidio, in stile algerino, di una intera famiglia, fra cui donne e bambini, sulle rive del fiume. Il 3 febbraio 1982 le moschee invocarono un jihad contro gli Assad, definiti “infedeli”. Il regime rispose ordinando l’eccidio dei “Fratelli musulmani, i Fratelli criminali, i Fratelli corrotti”. I cristiani si schierarono con gli Assad nel massacro e sanno che i sunniti potrebbero prendersi la loro vendetta. Per questo il motto ripetuto oggi dai cristiani siriani parla chiaro: “Possiamo essere governati dall’esercito o dal turbante”. O per dirla con Gabriel Matzneff, scrittore russo-francese: “Se vincessero i fondamentalisti musulmani, avremmo la fine del patriarcato d’Antiochia, ossia della chiesa ortodossa siriano-libanese, una duratura guerra civile e, senz’altro, sul Golan, eventi torbidi e sanguinosi”. Il New York Times ha appena riferito che una delle ragioni principali, oltre agli interessi strategici ed economici nell’avere un porto sul Mediterraneo, in grado di spiegare l’appoggio di Mosca al regime di Assad è la posizione intransigente della chiesa ortodossa. Quando ha dovuto giustificare l’appoggio a Damasco e spiegare che fine farebbero i cristiani se al posto di Assad prendessero il potere gli islamisti, il Patriarca russo Kirill I ha evocato niente meno che la rivoluzione bolscevica del 1917, con le sue sterminate “carcasse di chiese”.

Giulio Meotti: Countdown, storia preventiva dello strike

Giulio Meotti: Countdown, storia preventiva dello strike


[Israel vs Iran, 1/4]

Ad accogliere i visitatori nel quartier generale dell’aviazione israeliana di Tel Aviv è un poster: “Le aquile d’Israele sopra Auschwitz”. Dieci anni fa lo stato ebraico ottenne, suscitando numerose proteste internazionali, di alzare i propri velivoli militari sopra la tomba invisibile di milioni di ebrei. Il poster mostra due caccia F-15, pilotati da nipoti e figli di sopravvissuti alla Shoah, che sorvolano i resti delle camere a gas nel campo di sterminio nazista.
“Siamo arrivati troppo tardi per coloro che sono morti qui”, disse Ehud Barak, attuale ministro della Difesa israeliano. A guidare l’esercitazione c’era Amir Eshel, che oggi è il candidato principale per il comando dell’aviazione israeliana e quindi di un eventuale attacco militare alle installazioni nucleari in Iran.
“L’Iran è il nuovo Amalek che apparirà nella storia per provare, ancora una volta, a distruggere gli ebrei”, disse Benjamin Netanyahu, oggi primo ministro d’Israele, di fronte ai resti delle camere a gas di Birkenau. “Ricorderemo sempre che cosa ci ha fatto l’Amalek nazista. Non dobbiamo dimenticare d’essere pronti ad affrontare i nuovi amaleciti. E’ come il 1938, e la nuova Germania è l’Iran, che sta preparando un nuovo Olocausto dello stato ebraico”.


In un recente articolo sul New York Times [Will Israel Attack Iran?], Ronen Bergman, uno dei più noti giornalisti investigativi israeliani, ha scritto: “Dopo aver parlato con numerosi leader e militari israeliani sono arrivato alla conclusione che Israele attaccherà l’Iran nel 2012”. Sei mesi, al massimo un anno, è il tempo prima dell’“ora X”, prima cioé che Teheran sviluppi le capacità tecniche per assemblare un ordigno nucleare. A meno che non accetti di fermarsi o il suo programma non venga distrutto da un attacco militare. E’ il countdown, il conto alla rovescia sull’atomica degli ayatollah.
Il capo di stato maggiore d’Israele, Benny Gantz, ha appena definito il 2012 “l’anno dell’Iran”. Lo scorso giovedì il capo dell’intelligence militare israeliana, Aviv Kochavi, ha detto che l’Iran “ha già materiale fissile sufficiente per costruire quattro bombe atomiche”. Il giorno stesso Moshe Ya’alon, vice primo ministro ed ex capo di stato maggiore, annunciava che “Israele può distruggere tutte le strutture nucleari iraniane”. La tensione sale ogni giorno di più. Secondo una previsione del segretario alla Difesa americano Leon Panetta raccolta da David Ignatius, famoso giornalista del Washington Post, gli Stati Uniti temono che Israele possa attaccare i siti nucleari iraniani in “aprile, maggio o giugno”. L’aviazione di Gerusalemme penserebbe di colpire i bersagli iraniani per “4 o 5 giorni”.
“L’orologio tecnologico prevede che l’Iran sviluppi la bomba atomica entro massimo un anno”, spiega al Foglio il più noto giornalista militare israeliano, Ron Ben Yishai, corrispondente di Yedioth Ahronoth immortalato nel film “Valzer con Bashir”, in quanto fu il primo giornalista al mondo a entrare nel campo di Sabra e Shatila. “L’orologio delle sanzioni scatterà invece non prima di luglio e per Israele quella data è considerata troppo tardi per fermare i piani iraniani. Israele teme che non resti tempo per fermare l’atomica iraniana e non può permettersi che Teheran sviluppi una sorta di ‘immunità’ sul nucleare, portando il programma ancora più sotto terra, dopodiché sarebbe impossibile fermare Teheran.
L’attuale ‘red line’ dell’America è se l’Iran supera il trenta per cento di produzione di uranio arricchito, per Israele questa linea rossa è inaccettabile, perché da lì in poi entro tre mesi Teheran potrebbe assemblare la bomba. Israele quindi potrebbe decidere di attaccare, con o senza gli americani, avendo senza ombra di dubbio le capacità di paralizzare o distruggere il programma nucleare iraniano”.
Scrive Ronen Bergman che Benjamin Netanyahu “è l’uomo che ha fatto dell’Iran la questione numero uno in Israele”. Vent’anni fa, quando ancora non si parlava di Qom, Bushehr, Fordow e Isfahan, ovvero la fitta rete di fabbriche nucleari che il regime iraniano ha costruito nei sotterranei dell’antica Persia, Netanyahu pubblicò un libro dal titolo Fighting Terrorism, in cui scriveva: “Non c’è più tempo, il mondo è di fronte a un abisso e una volta che l’Iran avrà acquisito armi atomiche nulla può escludere che possa spingersi verso l’irrazionalità”. All’epoca Netanyahu era semplicemente il “Dottor No” della destra e i baroni del Likud gli davano dell’“amerikano”, per il suo inglese impeccabile, per gli studi al Massachusetts Institute of Technology e perché durante la guerra del Golfo era il “darling della Cnn”. Negli studi dell’emittente americana a Gerusalemme, Netanyahu andava in tv indossando una maschera antigas, a testimoniare l’angoscia d’Israele mentre Saddam Hussein lanciava missili scud su Tel Aviv.
“A Netanyahu spetta la decisione di attaccare l’Iran, la storia d’Israele poggia sulle spalle dei primi ministri e sono loro a decidere per il bene del popolo ebraico”, dice al Foglio Yoel Guzansky, uno dei massimi esperti d’Iran e direttore della sezione iraniana dell’Institute for National Security Studies di Tel Aviv, il maggiore pensatoio per la sicurezza nazionale in Israele. “Per Israele oggi conta soltanto la sopravvivenza del popolo ebraico, non il rapporto con gli Stati Uniti”.
Vent’anni dopo la pubblicazione di quel libro, Netanyahu ha lanciato la più vasta distribuzione di maschere antigas dai tempi della guerra del Golfo. Nei giorni scorsi il maggiore Eshel ha detto che ancora metà della popolazione è senza la nuova maschera antigas. Israele sta correndo ai ripari, timoroso della “biologia nera” nelle mani di Iran, Siria e Hezbollah. La distribuzione della nuova maschera, che porta il nomignolo di “Candy”, fa parte di un piano di autodifesa del “fronte interno” in caso di strike all’Iran. In ogni casa israeliana si conservano ancora le vecchie maschere dentro brutte scatole color caki, nella stanza meno usata, per esorcizzare il pericolo. Tutti ricordano le immagini dei genitori che all’interno di una stanza sigillata leggevano una fiaba al figlio che aveva in testa una specie di casco da astronauta in grado di proteggerlo dai veleni.
L’uso preventivo della forza da parte d’Israele sarebbe giustificato.“Ogni persona e ogni stato ha il diritto di difendersi se sotto minaccia esistenziale, non devi aspettare il punto in cui il tuo nemico ti possa attaccare per distruggerti”, dice al Foglio Avi Sagi, filosofo morale e coautore dello Spirit of the IDF, il più recente codice di condotta etica dell’esercito ebraico. “Se Israele è certo che possa finire sotto attacco atomico, allora ha il diritto a un attacco preventivo. C’è una piccola linea rossa invisibile in cui si intreccia la questione tecnica dell’atomica ma anche la volontà della leadership di Teheran. Cosa c’è nella mente degli iraniani? Gli iraniani sono abbastanza razionali da avere la bomba senza usarla, come avvenne durante la crisi dei missili a Cuba? L’attacco preventivo venne usato già durante la Seconda intifada, quando Israele eliminò alcuni capi terroristi in esecuzioni extragiudiziali. E’ una moralità che fa parte dell’ethos ebraico. Israele è prigioniero da sempre di una guerra asimmetrica, in cui soldati combattono terroristi in abiti civili. Israele ha sospeso operazioni militari per il timore di vittimi civili fra i palestinesi e gli iraniani devono sapere che in caso di strike Israele farà tutto il possibile per evitare vittime civili e che l’obiettivo sono le sue infrastrutture nucleari. Ma l’esercito d’Israele è nato per difendere gli ebrei”.
Il countdown inizia dalla mente del primo ministro. “Per Menachem Begin (primo ministro all’epoca dell’attacco alla centrale nucleare di Osirak) era una questione fra lui e Dio”, dice Ariel Levite, ex consigliere per la sicurezza nazionale. “Anche Netanyahu pensa di essere parte di una missione storica”. La posizione di Netanyahu su Teheran, dicono fonti vicine al primo ministro, è plasmata “da Amalek e dall’Olocausto”. E’ il tema della festa di Purim, quando gli ebrei celebrano la sconfitta di Aman che ai tempi del re Assuero di Persia voleva annientare tutti gli ebrei. Dopo Amalek, il terribile guerriero del deserto, vennero i Romani con la distruzione di Gerusalemme e l’imperatore Tito che entrò nel canone ebraico come successore di Aman; poi è stata la volta di Hitler, dell’Olp di Yasser Arafat e infine dell’Iran nuclearizzato, che secondo Netanyahu primeggia come metafisico persecutore fra gli odiatori assoluti di ebrei. Ahmadinejad come Aman, protagonista della Meghilà di Ester, il libro di Ester.
I giornalisti più maligni, non senza ragione, dicono che questa ideologia di Netanyahu proviene da suo padre, un intellettuale di fama mondiale. “L’Olocausto non è mai finito, l’Iran promette che il movimento sionista è arrivato alla fine e che non ci saranno più sionisti al mondo”, ha appena detto il venerando Ben Zion Netanyahu di fronte a una platea di amici e parenti riuniti per festeggiare i suoi cent’anni. “Il popolo ebraico deve riporre la fede nel proprio potere militare. La nazione d’Israele mostra al mondo cosa deve fare uno stato di fronte a una minaccia mortale: guardare negli occhi il pericolo e decidere cosa fare. E farlo quando ancora c’è la possibilità di farlo”. L’anziano medievista, nato a Varsavia e da molti considerato il più grande studioso mondiale d’Inquisizione spagnola, dal suo quartiere di Katamon, in una zona di Gerusalemme dove la famiglia Netanyahu risiede da più di mezzo secolo, seguita a scrivere libri sulle persecuzioni.
Secondo Amir Oren di Haaretz, Netanyahu vede se stesso come l’ultimo paladino della saga revisionista. “Il primo ministro è convinto di essere nato per anticipare gli eventi. Ze’ev Jabotinsky, di cui Ben Zion Netanyahu fu il segretario per tutta la vita, previde l’Olocausto. Netanyahu vede l’Olocausto dell’Iran e continuerà questa dinastia profetica”. Un anno fa Netanyahu ha reso nota una lettera del padre scritta proprio durante la Pasqua ebraica del 1941, quando gli ebrei venivano spediti a morte nelle camere a gas e all’epoca il professor Netanyahu era direttore della Zionist Organization of America e perorava la causa degli ebrei europei: “Attraverso oceani di sangue, il nostro sangue, attraverso oceani di lacrime, le nostre lacrime, soltanto una nazione del nostro calibro poteva sopravvivere attraverso epoche di sofferenza impareggiabili Ma siamo vivi e lottiamo per la libertà”. Ci dice un ex consulente del premier che il padre ha instillato nel figlio “questa viscerale identificazione con il miracolo della sopravvivenza ebraica”.
Una delle più note firme di Haaretz, Ari Shavit, dice che “Benjamin Netanyahu crede di essere uscito dal grembo di sua madre per salvare il popolo ebraico e la civiltà occidentale dal pericolo che sorge da Natanz (la centrale nucleare iraniana). Vuole essere la persona che sconfiggerà il nazismo del XXI secolo”.
Ne parliamo con Yossi Klein Halevi, scrittore e intellettuale di punta del mondo ebraico americano. “Ci sono similarità e differenze fra Menachem Begin, che attaccò il reattore nucleare in Iraq, e Benjamin Netanyahu, l’uomo dell’Iran. Begin fu l’unico leader israeliano nell’Europa dell’est imprigionato dai comunisti e la cui famiglia venne uccisa dai nazisti. La Shoah era parte essenziale della vita di Begin. Netanyahu è nato in Israele, ha servito con Ehud Barak nelle unità d’élite dell’esercito, è un simbolo del potere ebraico e della capacità del popolo ebraico di difendersi. Ma sull’Iran Netanyahu è tornato a Begin e alle origini della destra. Quando parla degli anni Trenta, Netanyahu intende la mentalità occidentale di appeasement riguardo all’Iran”.
Secondo Halevi, l’Olocausto è decisivo per capire cosa farà Israele nel caso in cui l’America si rifiuti di entrare in guerra contro gli iraniani. “Anche il socialista Barak, sostenitore dello strike, è stato influenzato dalla dottrina Osirak di Begin e pensa che Israele deve sparare il colpo preventivo prima che ci sia un altro Olocausto. Netanyahu sa che Ahmadinejad è un nemico molto più mortale per Israele di quanto non lo fosse Saddam Hussein. La dottrina Begin si basa proprio sulla capacità degli ebrei di fare da soli anche senza l’America. Quando Israele attaccò Osirak, l’Amministrazione di Ronald Reagan non venne avvertita da Israele. E sfido a paragonare Barack Obama a Reagan sulla difesa d’Israele per capire come potrebbe agire oggi Netanyahu. Oggi l’America è preoccupata più dallo Stretto di Hormuz che dall’atomica iraniana”.
Halevi dice anche che esiste un momento preciso che ha cambiato per sempre il “dossier Iran” in Israele, specie nella classe dirigente vicina a Netanyahu: “Fu quando nel 2005 Ahmadinejad organizzò ufficialmente la conferenza sul negazionismo della Shoah. L’Iran è l’unico stato mondiale devoto a dimostrare la falsità dell’Olocausto. Da allora Israele non ha più guardato a Teheran allo stesso modo. Anche se lasciamo da parte gli scenari apocalittici, nessuno può essere certo che l’Iran non possa lanciare una testata atomica su Tel Aviv. Allora la storia ebraica sarebbe finita. Netanyahu inoltre sa che l’Iran darà il via libera a una difesa nucleare nella regione per Hezbollah e Hamas. Sarebbe la fine della deterrenza d’Israele. Inoltre, i rivoluzionari di Teheran potrebbero passare una ‘bomba sporca’ ai terroristi e usarla contro lo stato ebraico. Infine, ci sarebbe una corsa alla bomba atomica nella regione. Se Israele sa che il punto di non ritorno è vicino, lancerà un attacco contro l’Iran, con o senza americani. In gioco c’è soltanto la sopravvivenza del popolo ebraico”.
L’albero genealogico di Netanyahu reca anche un fratello eroe, caduto a Entebbe, nel famoso salvataggio degli ostaggi ebrei. E il ricordo di quel fratello eroe gioca un ruolo decisivo nella mente del primo ministro. Ogni anno, quando tutto il paese è concentrato nel ricordo dei suoi caduti e Yom Hazikaron, il Giorno del Ricordo, si stende su Israele tanto da bruciare, da rodere, da ferire, il primo ministro si reca sulla tomba del fratello ucciso. Il 4 luglio di trentaquattro anni fa un commando di teste di cuoio israeliane fu protagonista di un clamoroso blitz a migliaia di chilometri di distanza da casa. In Uganda gli israeliani volarono per liberare un centinaio di passeggeri ebrei di un jet della Air France dirottato da terroristi palestinesi. Il reparto è guidato da Yoni, fratello del premier e unica vittima del blitz. “Yoni si è battuto ed è morto per il popolo ebraico, ma la sua battaglia aveva orizzonti più ampi, Yoni vedeva questa guerra come una battaglia fra la civiltà e la barbarie”, si legge nel libro del 1997 scritto dal primo ministro. “E’ una battaglia che dall’inizio della Storia ha contrapposto le forze delle tenebre a quelle dei lumi”. La stessa dicotomia è applicata alle fornaci nucleari iraniane.
Nel suo capolavoro, Le Origini dell’Inquisizione [Le Origini dell’Inquisizione], pubblicato negli Stati Uniti da Random House, il padre di Netanyahu sostiene che l’Inquisizione fu il prototipo della persecuzione antiebraica del Novecento e che non era nata per estirpare il giudaismo come religione, ma gli ebrei come popolazione. La morale del professor Netanyahu è che “la persecuzione è eterna, cosmica”. E’ il grande messaggio che ha trasmesso ai figli: uno è morto combattendo i terroristi, l’altro vuole difendere Israele dalle centrali atomiche iraniane.
Secondo l’esperto di Iran Yoel Guzansky, la formazione ideologica di Netanyahu potrebbe spingerlo ad agire anche senza il consenso degli americani. “Netanyahu sa che le possibilità di uno scontro fra America e Iran sono molto basse al momento sulla questione nucleare, perché Washington è preoccupata più dallo Stretto di Hormuz che dal nucleare. Netanyahu potrebbe decidere di lanciare una campagna militare anche senza il consenso americano. Tutto dipende dai dati che Israele avrà in mano, non certo dal dispiacere che potrebbe provocare negli Stati Uniti. Se Israele pensa che è rimasto solo in questa operazione, agirà da solo. Netanyahu attaccherà se l’intelligence gli fornirà certezze sul danno permanente che Israele può causare al programma iraniano. Abbiamo una opzione militare contro l’Iran e possiamo distruggere ancora le centrali iraniane”.
Per capire questa mentalità israeliana si deve sfogliare un altro libro di Netanyahu scritto nel 1993, A Place Among the Nations: Israel and the World, in cui il futuro primo ministro, pensando all’Iran, parla del “tradimento del sionismo da parte dell’occidente”. In un capitolo dal titolo emblematico, “Betrayal”, il tradimento, Netanyahu scrive che la Gran Bretagna, “gli arabisti del Foreign Office”, “abbandonarono gli ebrei sull’orlo dell’annientamento”. Un altro capitolo è dedicato a Ze’ev Jabotinsky, il padrino della destra israeliana che vide la debolezza del liberalismo weimariano e il suo irenismo cosmopolita. Il passo preferito dal primo ministro è quello in cui Jabotinsky cita Thomas Hobbes: “Saggio è stato il filosofo che ha detto ‘homo homini lupus’. Il tenere sempre il bastone in mano è l’unico mezzo per sopravvivere in questa guerra di lupi”.
In questa possibile guerra con l’Iran, i bastoni d’Israele sono i missili Jericho, i caccia F-16, lo scudo “fionda di David”, il radar “Pino Verde”, i sottomarini Dolphin, Leviathan e Tekuma. Dentro quest’ultima parola, che in ebraico significa “rinascita”, c’è tutta l’eco di una guerra che se verrà avrà gli occhi di Benjamin Netanyahu e Mahmoud Ahmadinejad.


Giulio Meotti: Mañana, la guerra fantasma di Israele


[Israel vs Iran, 2/4]



Nella strada che costeggia il Mediterraneo, a pochi chilometri da Tel Aviv, c’è un insieme di edifici bianco-grigiastri al di là di una fila di eucaliptus. Lì sorge il monumento ai 400 israeliani caduti servendo nei servizi segreti. Alcuni di loro non hanno neppure una tomba in terra ebraica, sepolti senza nome in qualche sperduto camposanto arabo. Come Eli Cohen, lo 007 che garantì la vittoria nel 1967 e che faceva emozionare Yitzhak Rabin quando ne ricordava la figura: “Eli è un mito, ci siamo tramandati la sua storia da comandante a soldato, da padre in figlio”.
Eli Kamal, come si faceva chiamare Cohen, divenne amico personale dei generali siriani, venne ammesso a visitare le postazioni sul Golan e dalle colline sul lago di Tiberiade prese nota dei bunker, dei carri armati e dei missili terra aria arrivati da Mosca. Scoperto, Cohen verrà giustiziato in diretta tv. “Morte al sionista”, grida la folla a Damasco mentre il boia gli stringe il cappio intorno al collo e la moglie, da Tel Aviv, assiste allo scempio del corpo del marito.
Quando Meir Dagan ha lasciato la guida del Mossad, un anno fa, dopo aver abbracciato le storiche guardie del corpo, non si è portato via soltanto la celebre pipa, ma anche il suo più grande rimpianto, ovvero non aver saputo riportare in patria le spoglie di Cohen. Dopo Issa Harel “il piccolo”, che catturò il gerarca nazista Adolf Eichmann in Argentina, Dagan è stato il più ardito direttore del Mossad, il servizio segreto d’Israele. La sua ossessione, in questi otto anni, è stato il programma atomico dell’Iran, in un crescendo che adesso potrebbe avere come atto finale un blitz aereo.
Ma a differenza del primo ministro Benjamin Netanyahu, Dagan è contrario allo strike. E’ “la nemesi di Netanyahu”. Un paradosso difficile da comprendere, perché in un paese di duri come Israele, Dagan è il più duro. Nel 1967 Dagan saltò su una mina egiziana e oggi cammina con fatica. Ma quella ferita, disse, “è la prova che ho una spina dorsale”. Quando trent’anni dopo emerse come uno dei possibili capi del Mossad, il Times lo chiamò “il cacciatore di arabi”. Nel 2002 l’allora primo ministro Ariel Sharon, che chiese a Dagan di risollevare un moribondo servizio segreto, disse che la specialità dello 007 consisteva nel “separare un arabo dalla propria testa”. Il “metodo Dagan” sull’Iran, come lo ha ribattezzato il quotidiano Yedioth Ahronoth, consiste nel rafforzamento delle sanzioni e nel fomentare le rivolte interne, ma soprattutto nell’assassinio di scienziati e nel sabotaggio del materiale atomico. Un metodo che va sotto la sigla di “mañana”.
Si rimanda l’ora X della bomba atomica. Domani e domani e domani… Mañana, appunto. “Una tecnica dilatoria” dice Yaakov Katz, editor militare del Jerusalem Post che sta per pubblicare, assieme allo storico Yoaz Hendel, il libro Israel versus Iran. The Shadow War, la guerra fantasma. E’ la guerra di Dagan. La guerra che c’è ma non si vede e colpisce le centrifughe atomiche, i magazzini di fluoruro di uranio, gli scienziati e gli emissari stranieri. “Il piano Dagan è stato un grande successo”, dice al Foglio Ron Ben Yishai, il re dei corrispondenti militari israeliani per Yedioth Ahronoth, che nel 2007 riuscì a visitare, unico giornalista al mondo, il sito nucleare siriano bombardato dall’aviazone israeliana (uno dei successi di Dagan). “Si iniziò a parlare di Iran nel 2000 e si disse che avrebbe avuto la bomba atomica entro tre anni. Ancora non ce l’hanno. Grazie a Dagan. I sabotaggi e le uccisioni hanno funzionato. Adesso Dagan pensa che Israele debba procedere secondo l’orologio di Washington, mentre l’orologio di Netanyahu procede più spedito. Ma sia Dagan sia Netanyahu concordano che Israele non accetterà un Iran nucleare, lo stato ebraico sarebbe vittima di una lunga guerra di attrito fra i terroristi nella regione protetti dall’ombrello atomico di Teheran”.
Meir Javedanfar, autore del libro sulla “Sfinge Iraniana” [The Nuclear Sphinx of Tehran: Mahmoud Ahmadinejad and the State of Iran] e docente a Herzliya, dice al Foglio: “La linea rossa per Dagan è la costruzione della bomba atomica. E’ come se oggi l’Iran avesse tutte le parti della bomba sul tavolo e dovesse ancora decidere di assemblarle. Se alla fine Israele riceverà la ‘luce verde’ dagli americani Netanyahu attaccherà l’Iran. Israele non può aspettare un test iraniano e ci sarà un attacco preventivo”.
Sull’ultimo numero di Newsweek anche lo storico di Harvard Niall Ferguson, uno dei maggiori opinion maker al mondo, ha scritto che “Israele e Iran sono alla vigilia di una nuova guerra dei Sei giorni. La guerra preventiva è un male minore rispetto all’appeasement”. [CfUS Prof. Tells Newsweek Israel Must Attack Iran – Now.]
Dal 13 gennaio 2010, cinque scienziati nucleari iraniani, esperti missilistici e tecnici sono stati uccisi da una mano invisibile. Altri sono morti nei mesi precedenti. L’ultima vittima attribuita a Dagan si chiamava Mostafa Ahmadi Roshan, che dirigeva il nuovo centro a Qom per l’arricchimento dell’uranio. “Possiamo presumere che molti altri esperti dal basso profilo siano stati uccisi”, ci dice Ben Yishai. “E’ un ottimo deterrente per altri scienziati, compresi gli stranieri”. Alcuni giorni fa Dagan ha risposto con un sorrisetto malizioso quando gli è stato chiesto se era stato “Dio” a mettere a segno i sabotaggi in Iran.
Il culmine della saga Dagan si celebrò due anni fa, a Dubai, dove una squadra di ventisette agenti del Mossad atterrò con voli di linea provenienti da Roma, Francoforte, Parigi e Zurigo. Erano lì per Mabhouh al Mabhouh, il leader di Hamas il cui nome in codice era “Plasma”. Il team è formato da membri della “Caesarea”, l’élite specializzata in omicidi e penetrazioni in strutture straniere. Non hanno un indirizzo di lavoro, non usano i propri nomi e persino le famiglie — tranne i parenti stretti — non sanno cosa fanno. Mabhouh era sulla lista dei “most wanted” fin dagli anni Novanta, quando uccise due soldati israeliani nel Negev. L’unico rimpianto, disse Mahbouh ad al Jazeera, fu di non aver sparato lui stesso in faccia agli israeliani.
Pochi giorni prima che la squadra entrasse in azione, in un capannone alla periferia di Tel Aviv, la sede del Mossad nota come “Midrasha”, Netanyahu sarebbe arrivato con le sue Audi A6 per incontrare Dagan e gli uomini di Dubai. Il premier avrebbe ascoltato il piano e alla fine dato l’okay: “Il popolo d’Israele conta su di voi. Buona fortuna!” Mabhouh stava andando a Bandar Abbas, il porto iraniano, per un carico d’armi. Era l’uomo di Hamas in Iran. Per questo nella mente di Dagan, ucciderlo valeva ogni costo, anche l’incredibile video che ha inchiodato gli israeliani. E’ un’operazione rischiosa.
Nel 1997 Netanyahu ordinò l’uccisione di un altro leader di Hamas, Khaled Meshaal, nelle vie di Damasco. Fu un disastro. Il Mossad gettò un veleno nel suo orecchio, ma senza ucciderlo. Gli agenti furono catturati e per liberarli Gerusalemme consegnò l’antidoto e liberò lo sceicco paralitico di Hamas, Ahmed Yassin.
Due anni prima, a Malta, agenti israeliani su ordine di Shimon Peres avevano ucciso Fathi Shkaki, il capo del Jihad islamico, “il Dottore” che aveva inventato la guerra suicida sugli autobus.
Mabhouh muore in un hotel a Dubai. Ma il Mossad viene scoperto. Pochi mesi dopo, Dagan è sostituito da Tamir Pardo. Il “siberiano”, come è noto Dagan per esser nato nella glaciale Novosibirsk, nella guerra all’Iran ha reclutato uomini d’azione di diverse nazionalità. Li ha infiltrati nei paesi più difficili, soprattutto in Siria. Forse anche in Iran.
L’ex capo dell’Unità speciale Saieret Matkal, Amiram Levine, ha detto che Israele può facilmente infiltrare agenti speciali nella Repubblica Islamica: “L’Iran non è al di fuori della nostra portata: ho visto cose più complicate”. Nel settembre 2007 una soffiata di Dagan portò alla distruzione del sito nucleare di Deir al Zour. E’ l’Operazione frutteto. Decisiva sarebbe stata una fotografia che un agente del Mossad ha scattato al sito nucleare. Poi viene decapitato, letteralmente, il comandante dell’ala militare di Hezbollah, Imad Mughniyeh, all’uscita dal quartier generale dei servizi segreti a Damasco. Sei mesi dopo è la volta del generale Mohammed Suleiman, il punto di raccordo con il programma nucleare nordcoreano e iraniano, assassinato mentre si stava rilassando nella sua villa in riva al Mediterraneo da un cecchino a bordo di uno yacht che veleggiava poco lontano.
Dagan aveva un suo rito per motivare gli operativi. Li convocava nel proprio ufficio e mostrava loro una fotografia di un ebreo religioso avvolto nello scialle ebraico di preghiera, inginocchiato e con le braccia alzate. Al suo fianco ci sono ufficiali delle SS che gli puntano una pistola alla tempia: “Quest’uomo era mio nonno, Dov Ehrlich”, diceva Dagan. L’uomo verrà ucciso dai nazisti nella città polacca di Lukow. “Guardate questa fotografia”, diceva Dagan agli agenti. “Questo vi guidi nell’agire per lo stato d’Israele. Farò tutto ciò che devo per far sì che non accada mai più”.
Teheran vuole morto il direttore del Mossad: tre anni fa in Iran sono apparsi manifesti che chiedevano la testa dell’ex direttore del Mossad. E’ la “taglia di Golia”. “La linea Dagan è più conveniente dello strike”, dice Avi Shavit di Haaretz. “La deadline viene posticipata, Israele non cura il cancro, ma ne rinvia l’eruzione. Dagan era come un gran sacerdote, si era arrivati a pensare che fosse onnipotente e che le manomissioni fossero la salvezza. Ma il rapporto dell’Aiea (che ha svelato al mondo l’atomica iraniana, ndr) ha dimostrato che era un’illusione. Dagan ha fatto cose grandiose, ma non ha completato la missione che gli diede Sharon dieci anni fa. Ovvero distruggere i piani nucleari iraniani”.
Tutti all’“istituto”, come in Israele si chiama il Mossad, ricordano le parole con cui si presentò Dagan nel 2002: “Siamo come il dottore che inietta il veleno nella camera della morte. Le vostre azioni sono sostenute da tutto Israele. Per voi uccidere non è illegale. Eseguite una sentenza del primo ministro”. Secondo Gordon Thomas, autore di Gideon’s Spies [Mossad: La historia secreta ], Dagan è l’uomo che conosce i paesi islamici meglio dei rispettivi autocrati. L’Operazione calamita di Dagan ha spazzato via metà dell’élite dei ricercatori nucleari. Di recente è arrivata una dichiarazione da brivido del capo di stato maggiore israeliano, il generale Benny Gantz: “L’Iran deve aspettarsi un numero maggiore di eventi innaturali nel 2012”.
Dagan ha tratto ispirazione dall’operazione “Spada di Damocle”, con cui nel 1962 agenti del Mossad uccisero scienziati tedeschi che avevano lavorato nella base nazista di Peenemunde e che si erano messi al servizio dell’Egitto per sviluppare l’arsenale in grado di distruggere Israele. L’ex premier Yitzhak Shamir viene assunto dai servizi segreti per eliminare gli scienziati tedeschi. A Monaco sparisce Heinz Krug, che acquista in Europa le materie prime necessarie agli egiziani. Di lui non si avranno mai più notizie. Poi una lunga serie di lettere esplosive viene inviata a tecnici tedeschi ed egiziani. Qualcuno la ribattezza operazione “Post Mortem”.
A “tagliare la testa del serpente”, il piano del Mossad per fermare gli scienziati iraniani, Dagan ha imparato al fianco di Ariel Sharon, quando assieme spianavano intere aree della Striscia di Gaza per sconfiggere il terrorismo arabo. Dagan, che il giornale egiziano al Ahram ha ribattezzato “Superman”, fondò proprio il reparto “Ciliegia”, Dudevan, il nome agreste per un’unità celeberrima perché composta da militari che si travestono da arabi e operano in profondità nei villaggi di Gaza e Cisgiordania. In ebraico si chiamano “mista’aravim”, ovvero “diventare come gli arabi”. L’attuale ministro della Difesa, Ehud Barak, condusse una simile operazione a Beirut, quando vestito da donna si infiltrò per eliminare un commando palestinese (l’operazione è immortalata nel film Munich di Steven Spielberg).
Il motto dell’unità di Dagan era un celebre discorso che nel 1955 l’allora generale Moshe Dayan fece alle reclute: “Non possiamo proteggere tutti gli acquedotti, né impedire che gli alberi vengano sradicati, né che uccidano i nostri lavoratori nelle piantagioni, né le famiglie nei loro letti, ma possiamo pretendere un prezzo adeguato per il nostro sangue.”
Come ha detto il giornalista Emanuel Rosen di Channel Two, “Dagan taglierebbe le gole dei terroristi anche con un apriscatole”. Il suo predecessore, Eprahim Halevy, nipote del filosofo Isaiah Berlin, veniva chiamato “Mr. Cocktail” per la linea di condotta più diplomatica e soft. Nato nel gennaio 1945 su un treno che viaggiava fra la Siberia e la Polonia, già a ventisei anni Dagan è comandante di un’unità militare celebre per “non fare prigionieri”. Dagan avrebbe fondato la politica di assassinio mirato dei terroristi.
Prima degli iraniani nella “lista” di Dagan ci sono finiti lo sceicco Yassin e Abdel Rantisi, “il medico” capo di Hamas saltato in aria a Gaza, dove Dagan è chiamato “l’angelo della distruzione”. Il celebre 007 se ne andava in giro con in mano un elenco di ricercati e ne spuntava di volta in volta i nomi quando venivano catturati o uccisi. Quando l’allora premier Sharon assegnò a Dagan il dossier nucleare iraniano, il Mossad non doveva più soltanto sorvegliare i programmi atomici, come faceva con Halevy, ma uccidere gli scienziati impegnati nel progetto per la bomba e intervenire nei paesi sospettati di collaborare con l’Iran.
Fra le azioni attribuite a Dagan c’è anche il virus Stuxnet, il programma che ha ritardato di due anni i piani iraniani. Esperti informatici di mezzo mondo dicono che c’è soltanto un possibile autore: la celeberrima unità israeliana “otto duecento”. Ne ha scritto Ronen Bergman nel libro The Secret War with Iran. L’unità impiega gli israeliani più dotati in matematica e criptoanalisi. Tra i successi dell’unità si ricordano le intercettazioni il primo giorno della guerra del 1967, il colloquio tra Yasser Arafat e i terroristi dell’Achille Lauro nel 1985 e la famosa cattura della Karin A, il mercantile carico di armi iraniane destinate ai palestinesi di Gaza.
Di Dagan parliamo con Emily Landau, una delle massime esperte di Iran: “La domanda non è se le sanzioni avranno efficacia, ma se la pressione, fra le sanzioni e i sabotaggi di Dagan, costringerà l’Iran a fermare il nucleare. Israele deve far capire all’Iran che ci saranno conseguenze militari. Il regime iraniano è razionale. Ma razionalità non significa ragionevolezza. L’Iran ha scelto razionalmente di non andare ai negoziati perché vuole le armi nucleari. Non abbandonerà il progetto con facilità. La differenza fra Dagan e Netanyahu è sui mezzi per fermare l’Iran.”
Secondo gli esperti di intelligence, grazie a Dagan oggi gli scienziati iraniani si sentono perennemente in pericolo. Molti di loro, infatti, vivono nella rete dei siti segreti e sotterranei per la fabbricazione di armi nucleari. Il fisico Ardeshir Hassanpour è ufficialmente morto in seguito ad avvelenamento causato dal guasto di una stufa. Majid Shahriari è saltato in aria con la sua auto, era l’esperto di reazioni nucleari a catena. Erano in cima alla lista del “programma decapitazione” di Dagan. Poi ci sono le esplosioni alle centrifughe.
Mark Hibbs, esperto iraniano al Carnegie Endowment for international peace, dice che il sabotaggio è noto come “fratricidio”, contagia altre strutture in una spirale. Dice al Foglio Yoel Guzansky, uno dei maggiori analisti israeliani: “E’ possibile ora continuare a rimandare l’orologio nucleare iraniano senza una guerra su larga scala”.
Il successore di Dagan, Tamir Pardo, può contare su agenti, per dirla con lo 007 siberiano, “di tale potenza da far maledire ai nemici il giorno in cui sono nati”. “Ma in Israele è in corso un dibattito sulle operazioni clandestine”, spiega Ronen Bergman, che sta scrivendo un libro sul Mossad. “C’è chi sostiene che in queste operazioni ci sia un momento culminante e che nel caso dell’Iran sia già stato superato. Il programma di Teheran è andato avanti e gli iraniani sono consapevoli degli sforzi stranieri per ostacolarlo. Il punto è quale obiettivo vogliamo raggiungere: vincere una battaglia o la guerra?”
Mentre scriviamo un sottomarino israeliano con missili Popeye Turbo a testata nucleare sarebbe già dislocato fra l’arcipelago di Dahlak, di fronte all’Eritrea, e le acque al largo dello Sri Lanka. Dalle pendici israeliane del Keren “Blue Eyes”, il più occhiuto sistema satellitare che spii gli ayatollah, con quindici minuti d’anticipo si accorge se qualcosa s’alza da qualsiasi angolo dell’Iran. Il giornale Yedioth Ahronoth racconta di un rifugio antiatomico alle porte di Gerusalemme, una cittadella sotterranea dove troverà rifugio, se arrivasse il fatidico giorno, chi governa il paese. Il tunnel, lungo due chilometri e alto una decina di metri, sfocia in un’enorme caverna. Il “day after” d’Israele è già iniziato.

Giulio Meotti: Nella mente dello strike


[Israel vs Iran, 3/4]
“Sta per scoppiare la guerra fra Iran e Israele, bombarderemo i siti iraniani prima del previsto, le sirene ci sveglieranno di prima mattina e il comando interno ci dirà come entrare nei rifugi. Il resto sarà storia”. Così Sever Plocker, vicedirettore del maggiore giornale israeliano, Yedioth Ahronoth, lancia l’allarme sul countdown, il conto alla rovescia verso la resa dei conti fra lo stato ebraico e la Repubblica islamica dell’Iran.
Sullo strike è al lavoro un ristretto gruppo di cervelli attorno al primo ministro Benjamin Netanyahu. Accanto a “Mefistofele”, come malignamente su Haaretz è stato definito Amos Gilad, c’è Uzi Arad, dirigente di spicco del Mossad e figlio di un leader sionista imprigionato dai fascisti romeni di Antonescu. E poi Yaakov Amidror, il primo generale con la kippa dei religiosi, e l’analista militare Yoaz Handel, che ha appena pubblicato il report Iran’s nukes and Israel’s dilemma. E’ il primo documento sull’attacco preventivo uscito dalla squadra di cervelli del primo ministro. In tutto, scrive Handel, “ci sono 60 obiettivi da colpire in Iran”. Poi c’è l’influenza del “lituano”, Moshe Arens, ex ministro della Difesa ma per la stampa “l’uomo che ha inventato Netanyahu” (il padre dell’attuale premier, il professore di storia Ben Zion Netanyahu, fece da testimone di nozze ad Arens).
La “dottrina Arens” sull’Iran si basa sul timore che Israele perda quel potere di deterrenza faticosamente conquistato con la costruzione della centrale nucleare di Dimona e con la smagliante vittoria nella Guerra dei sei giorni. Da allora il deterrente si è già eroso per la sofferta guerra del Kippur (1973), per l’acquiescenza mostrata nella prima Guerra del Golfo e per la sconfitta subita da Hezbollah nel 2006. Nel sostenere lo strike contro l’Iran, Arens dice che Israele non deve commettere nuovamente l’errore del 1991, quando aspettò che il tiranno iracheno lanciasse quaranta missili su Tel Aviv. “Fu la prima volta che il paese porse l’altra guancia”, ha ricordato Arens, all’epoca era ministro della Difesa. “Non scherzate di nuovo con Israele”.


L’elaborazione strategica dello strike è avvenuta però al di fuori dell’attuale governo Netanyahu. Dieci anni fa Israele chiese a un gruppo di accademici e studiosi di formulare la dottrina dell’attacco preventivo. E’ il “Progetto Daniele”, dal nome del profeta biblico. Costituisce la giustificazione strategica per l’eventuale attacco ordinato dal primo ministro Netanyahu. Del gruppo hanno fatto parte, tra gli altri, l’ingegnere atomico israeliano Naaman Belkind, il generale della riserva Isaac Ben Israel e il colonnello dell’aviazione Yoash Tsiddon-Chatto. Il Foglio è a colloquio con l’accademico che ha scritto il “Progetto Daniele”, Louis René Beres, uno dei massimi esperti mondiali di genocidio all’Università americana di Perdue. “La deterrenza nucleare funziona soltanto fra attori razionali”, ci dice Beres.
“Noi del ‘Progetto Daniele’ per primi abbiamo spiegato che l’‘equilibrio del terrore’ non funziona con Teheran. Per Israele non difendersi preventivamente da un dichiarato nemico esistenziale — ovvero consentire a un regime islamico apocalittico di diventare nucleare — sarebbe suicida. Mutuando da Thomas Hobbes, nessuno stato ha il diritto di suicidarsi e lo studioso di diritto Ugo Grozio nel 1625 ha scritto che la vita innocente deve essere protetta. Quando i leader iraniani proclamano di credere nell’apocalisse sciita, misure difensive vanno considerate a Gerusalemme. L’Iran sta finalizzando la costruzione di armi atomiche e il regime dichiara che serviranno a creare ‘un mondo senza sionismo’. L’Iran può diventare, letteralmente, uno ‘stato suicida’. Noi del ‘Progetto Daniele’ abbiamo spiegato ai primi ministri israeliani che Israele potrebbe fronteggiare un attentatore suicida macroscopico, uno stato che agisce senza pensare alle conseguenze. Un nemico che potrebbe lanciare armi di distruzione di massa contro Israele sapendo molto bene che ci sarebbero delle rappresaglie. La conclusione di questo scenario è che Israele resterebbe paralizzato dall’irrazionalità del nemico e che quindi l’unica alternativa è l’attacco preventivo”.
Beres concorda con l’analisi su Newsweek di Niall Ferguson che Israele si trova di fronte a una nuova possibile guerra dei Sei giorni. “Lo stato ebraico nel 1967 optò per un attacco preventivo”, ci dice Beres. “La legge internazionale non è un patto suicida e include il diritto inerente degli stati all’autodifesa. Lo strike preventivo avrebbe un costo molto alto. Ma quali sono le alternative? Le sanzioni economiche, la guerra cibernetica, gli omicidi mirati possono ritardare la costruzione di armi nucleari atomiche, ma non possono fermarle. Di fronte a un primo colpo da parte dell’Iran su un paese della grandezza del New Jersey, qualcosa che significherebbe la scomparsa d’Israele, abbiamo il diritto a una difesa preventiva”.
Oggi lo strike appare come una bandiera della destra israeliana, ma è stata formulata da uno dei padri nobili della sinistra ebraica. E’ il professor Asa Kasher, docente di Filosofia etica all’Università di Tel Aviv, l’uomo senza uniforme, il professore che siede tra i generali di Tsahal e che per due anni ha lavorato al documento che ha definito l’etica dell’esercito israeliano. Si chiama Tohar HaNeshek (“purezza delle armi”), significa usare le armi secondo regole morali. Il testo venne duramente criticato dalla destra israeliana per bocca dell’ex capo di stato maggiore Rafael Eitan: “Si tratta di fesserie che possono solo demoralizzare l’esercito, non ci sono armi pure, perché sono uno strumento per uccidere”. Eppure l’allora chief of staff Ehud Barak e il suo primo ministro, Yitzhak Rabin, abbracciarono il documento che da allora è diventato la base morale dell’esercito più agguerrito e peculiare al mondo.
Kasher, considerato vicino al partito di estrema sinistra Meretz, è per tutti “the moralist”. Il professore oggi è a colloquio con il Foglio sull’Iran. “La giustificazione di un attacco preventivo israeliano poggia sulla dottrina della ‘guerra giusta’ e sullo spirito della legge internazionale”. Ci sono alcune condizioni per lo strike. “Una buona causa: generalmente soltanto l’autodifesa è considerata una buona causa. Nel caso dell’Iran, non c’è dubbio che sia un nemico aggressivo di Israele, è dietro a Hamas e Hezbollah e ha dichiarato apertamente di voler eliminare Israele. Una ostilità resa evidente anche dalla ripetuta negazione della Shoah da parte del presidente iraniano. Generalmente l’autodifesa è legata a un pericolo imminente. Nel caso dell’Iran, riferito alla sua capacità atomica e al desiderio di eliminare Israele, il pericolo imminente non è il lancio di testate atomiche, ma la capacità di farlo. Un attacco preventivo è quindi giustificato”.
Poi ci sono le possibilità di vittoria: “Le operazioni militari coinvolgono perdite da entrambe le parti, quindi devono avvenire non come gesti simbolici. Se la capacità iraniana di produrre l’atomica rimanesse intatta, lo strike sarebbe simbolico e non giustificabile. Se invece il danno è ingente o viene posticipato il programma, l’autodifesa è giustificabile”. Lo strike deve essere, dice Kasher, l’ultima risorsa: “Poiché il conflitto militare causa delle calamità, deve essere evitato se il problema alla radice può essere risolto con altri mezzi. Le sanzioni sono uno di questi, ma se falliscono lo strike militare è giustificabile”. Ci deve essere, infine, la proporzionalità: “Noi siamo responsabili della vita dei cittadini israeliani, così come il Canada è responsabile dei cittadini canadesi. E’ tutto. Non c’è un governo mondiale responsabile, ci sono stati con proprie responsabilità. Poiché in gioco c’è l’esistenza d’Israele e la vita dei suoi cittadini, non c’è dubbio che un attacco militare all’Iran sarebbe proporzionato. Non esiste paragone più alto. I miei genitori sono arrivati qui prima dell’Olocausto, ma mia moglie è una sopravvissuta. Quale lezione possiamo trarre dalla guerra? Che non faremo affidamento su nessun altro quando si tratta di proteggere i nostri cittadini. E anche se i nostri nemici dovessero portare dei bambini sui tetti delle case per spararci addosso, non capitoleremo. E’ tragico, ma non molliamo”.
L’idea dello strike è sposata anche dal filosofo morale Moshe Halbertal, l’allievo di Michael Walzer che ha collaborato al manuale di comportamento delle forze di difesa d’Israele: “Ci potrebbe essere una situazione in cui l’unico modo per prevenire un attacco nucleare contro Israele sarà quello di distruggere lo stato iraniano. Con questo voglio dire distruggere la sua capacità di agire come uno stato. Non è Hiroshima o Nagasaki. Ma sarebbe volto a distruggere laboratori nucleari, fabbriche, i reattori e tutto ciò che hanno. L’apparato statale che è necessario per ordinare e formare una cosa simile”.
Martedì il quotidiano Yedioth Ahronoth ha rivelato che i diplomatici di stanza a Tel Aviv e Gerusalemme hanno appena chiesto al governo israeliano di dotare anche le loro famiglie di maschere antigas. E’ già pronto anche un piano di evacuazione. Ieri l’Alef, il sito web iraniano vicino all’ayatollah Ali Khamenei ripreso dalla Fars News Agency, ha pubblicato la giustificazione iraniana per l’eventuale attacco a Israele, definito “materiale corrotto”. [Cf. Ayatollah: Kill all Jews, annihilate Israel.]
Si cita l’ultimo censimento israeliano, secondo cui il sessanta percento della popolazione risiede fra Tel Aviv e Haifa. Scrive l’analista Alireza Forghani che un solo missile Shahab 3 è in grado di eliminare il “cancro”. Sulla costa israeliana, vive un terzo della popolazione ebraica mondiale.


Giulio Meotti: La guerra dei 30 anni sta per finire

[Israel vs Iran, 4/4]


C’era un tempo in cui Ezer Weizman, il fondatore dell’aviazione israeliana, stringeva accordi economici con il ministro per gli Armamenti dell’Iran, Hassan Toufanian. C’era un tempo in cui Yaakov Shapiro, l’ufficiale israeliano che curava i rapporti con gli iraniani, veniva ricevuto a Teheran “come un re”. C’era un tempo in cui la sola ambasciata con la stella di David in tutto il medio oriente era quella a Teheran. C’era un tempo in cui si vedeva un viavai di tecnici israeliani nel centro nucleare di Isfahan.
Tutto ebbe fine il primo di febbraio del 1979, 12 Bahman 1357, alle ore nove e 7 minuti, quando un Jumbo dell’Air France comparve nel cielo azzurro-ceramica di Teheran, sorvolando i Monti Alborz. Su quell’aereo, noleggiato a credito, c’era Khomeini, il “profeta disarmato”. Ritornava in patria dopo quindici anni di esilio impostogli dallo scià Pahlavi, il “re dei re”. Milioni di persone avevano inondato le strade. Piangevano: “Allahu akbar”, Allah è grande, e “Marg bar scià”, morte allo scià.
Uri Lubrani, ultimo ambasciatore israeliano in Iran, aveva mandato un cablo a Washington e Gerusalemme: “Lo scià sarà anche un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”. Il presidente americano Jimmy Carter l’aveva ignorato. “Manderò davanti al tribunale del popolo tutti i corrotti sulla terra”, proclamò Khomeini. “Spezzerò i denti, taglierò le mani dei servi dell’imperialismo”. A ogni frase dell’imam, un milione e mezzo di persone gli faceva eco: “Sa’i ast”, ovvero “è giusto” e “così sia”. Per Israele, fu l’inizio della fine. Fu anche l’inizio del countdown atomico.
“Quella fra Israele e Iran è la più lunga guerra nella storia del medio oriente”, dice a colloquio con il Foglio Ronen Bergman, il più noto giornalista investigativo israeliano. “Nel 2006 l’Iran, attraverso Hezbollah, ha sconfitto lo stato ebraico. E’ dal 1979 che i due paesi si stanno facendo una guerra sotterranea. Non è possibile fare profezie, ma per la prima volta da quando si parla di Iran, ovvero da metà degli anni Novanta, ho la certezza che Israele stia pianificando un attacco preventivo”.
Bergman scrive per Yedioth Ahronoth, il maggiore quotidiano ebraico, e recentemente sul New York Times ha firmato un lungo articolo in cui ha spiegato che Israele attaccherà l’Iran nel 2012. Il saggio ha fatto il giro del mondo, perché Bergman è il giornalista più insider d’Israele. Bergman, che attualmente sta lavorando a un libro sul Mossad, è l’autore di The secret War with Iran, libro-inchiesta su trent’anni di conflitto fra Teheran e Gerusalemme.
“E’ una guerra titanica fra una rivoluzione islamica aggressiva e una società compiacente e soddisfatta di sé che vuole gettarsi alle spalle le paure esistenziali. Questi anni hanno dimostrato che l’Iran e Hezbollah sono avversari più tenaci, determinati e sofisticati di quelli che Israele e Stati Uniti hanno incontrato finora in medio oriente”.
Con lo stato ebraico la monarchia di Reza Pahlavi intratteneva rapporti di collaborazione in campo agricolo, industriale, energetico e militare. La prova più eclatante di questo legame è una stella di David gigante scoperta nel dicembre 2010 sul tetto della Iran Air, accanto all’aeroporto internazionale di Teheran. L’edificio era stato costruito da ingegneri israeliani prima della Rivoluzione.
Nella biografia di Khomeini The Spirit of Allah, il giornalista iraniano Amir Taheri racconta di una audiocassetta in cui l’imam denuncia una cospirazione fra la monarchia, “la Croce e gli ebrei”. Nei sermoni di Khomeini lo scià è chiamato “spia ebrea”. La rivoluzione provocò un terremoto in Iran nel campo della difesa, dei burocrati, dei servizi, dei militari legati allo scià.
La prima cosa che fece Khomeini fu tagliare i rapporti con Israele, definito “cancro”. Ma alcune fabbriche israeliane avrebbero continuato a ricevere i pagamenti ogni anno (a causa del caos amministrativo a Teheran) per lavori che non erano mai stati terminati. Gli iraniani chiesero di riavere indietro il denaro per la cifra tonda di cinque miliardi di dollari. Racconta Bergman che nelle moschee i preti islamici distribuirono manifesti contro “il sionismo internazionale”, che avvennero piccoli pogrom e che “I Protocolli dei savi anziani di Sion” con prefazione di Joseph Goebbels vennero tradotti in farsi, la lingua iraniana.
Il Mossad lanciò l’operazione “Shulchan Arukh” per portare via quarantamila ebrei. La predicazione antiebraica di Khomeini raggiunge il Libano, dove vive una folta comunità sciita. Hezbollah, detta “gli oppressi della terra”, spedì il primo kamikaze islamico contro i marine americani. Decine le vittime. Racconta Bergman che nel villaggio di Dir Qanoun al Nahr emissari iraniani presero parte al funerale dell’autista della Peugeot imbottita di dinamite. Il Mossad intercettò una lettera alla famiglia del kamikaze spedita da Teheran: portava la firma di Khomeini. Il 4 novembre 1983 un camion esplosivo uccide ventotto israeliani dell’intelligence militare. Si scoprirà che l’operazione era stata ordita da un quadro di Hezbollah noto come “lo Sciacallo sciita”, Imad Mughniyeh, ucciso a Damasco al numero 17 di via Nisan, in una operazione israeliana di due anni fa.
Hezbollah nel 2006 diventerà l’unica organizzazione che abbia davvero “sconfitto” Israele a forza di rapimenti, bombardamenti, smembramenti di corpi e ricatti. Israele ha lasciato il Libano nel 2000. In una notte, ridenti e piangenti, i soldati israeliani abbandonarono la “striscia di sicurezza”. Effi Eitam, comandante del battaglione libanese, disse all’allora primo ministro Ehud Barak quando ricevette l’ordine di sgombrare: “Non credere di portare i soldati via dal Libano, stai portando il Libano in Israele”. Stava portando l’Iran in casa. Da allora tutta la Galilea ebraica, dove viverci o è una necessità di poveri oppure è una scelta ideale e di vita, è stata bombardata a tappeto da Hezbollah.
Secondo Bergman il countdown è impossibile da comprendere senza il caso di Ron Arad, il giovane pilota israeliano che precipitò nel 1986 presso il porto libanese di Tiro e che fu acquistato letteralmente dagli iraniani per 300 mila dollari. L’ultima foto di Ron risale al 1991, ha una lunga barba e il volto sfinito da prigioniero torturato. “Da allora Teheran e le sue carceri popolarono le fantasie e gli incubi degli israeliani”, dice Bergman. Come dice un ex ufficiale del Mossad, “mai così tanto nella storia dell’uomo sono state spese energie per ritrovare una persona scomparsa”.
La guerra agli ebrei arriva in America latina. 1992, marzo, una bomba uccide trenta persone all’ambasciata israeliana di Buenos Aires. Due anni dopo, ai primi giorni di luglio, i servizi israeliani notano una “insolita frenesia” nel corpo diplomatico iraniano nei paesi del sud America, ma non trovano una spiegazione. La risposta arriva alle dieci di mattina del 18 luglio, quando un camioncino imbottito d’esplosivo distrugge la sede dell’Associazione ebraica di Buenos Aires [Amia]. Ottantacinque i morti. Il mandante è l’Iran, gli esecutori una cellula di Hezbollah. Da Israele arrivano due aerei, con a bordo 90 persone: investigatori, agenti del Mossad, personale specializzato in soccorsi con esperienza in terrorismo.
Intanto anche dentro all’Iran ci sono scoppi di odio antiebraico. Tredici ebrei tra scriba, maestri di scuola, rabbini, chi proveniente da Isfahan, chi da Shiraz, il cuore dell’antica Persia, vengono gettati nelle carceri iraniane con l’accusa di “spionaggio”. Nel 2002 la mano di Teheran arriva sempre più vicina allo stato ebraico. La nave Karin A è un vascello carico di brutti presagi, con 50 tonnellate di armi che per indirizzo avevano Gaza. Le casse portano scritte in farsi, la lingua dell’Iran. Le armi iraniane includevano missili, mortai e tonnellate di esplosivo C-24 che si usa negli attacchi suicidi.
Risale al 1992, poco dopo l’attacco a Buenos Aires, la prima segnalazione dell’intelligence israeliana sui movimenti nucleari interni all’Iran. Vent’anni dopo il quaranta per cento delle risorse del Mossad sono devote al file “Iran”. “Se Israele vuole disarmare l’Iran prenderà una decisione entro sei mesi o al massimo un anno. Israele non accetterà mai, a nessuna condizione, che Teheran si doti del nucleare, lo stato ebraico non può contenere l’Iran atomizzato”.
Secondo Bergman adesso ci sono cinque scenari possibili: “L’attacco israeliano, l’attacco americano, americani e israeliani che attaccano insieme, l’Iran che rinuncia all’atomica e un cambio di regime a Teheran. Poiché il secondo e il quinto scenario sono molto improbabili, il primo è il più possibile. L’America, dopo l’Iraq, non ha la forza di un’operazione preventiva simile e certamente Obama non vorrà attaccare prima della rielezione. Per Israele è troppo tardi. Lo stato ebraico preferirebbe agire con gli americani, ma la visione israeliana è plasmata da tre lezioni dell’Olocausto: Israele è lo scudo degli ebrei, ci saranno sempre nemici degli ebrei e i non ebrei non ci soccorreranno. Quindi Israele agirà anche senza americani se ritiene di dovere farlo. Israele ha fatto capire al mondo che aderisce ancora alla ‘dottrina Begin’, implementata per la prima volta nel 1981 con il bombardamento del reattore iracheno di Osirak. E sessant’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale le lezioni dell’Olocausto continuano a guidare i leader israeliani. Israele ha le capacità militari per ritardare di cinque anni il programma iraniano. E lo strike avrebbe soprattutto un effetto psicologico devastante. Immagina di essere uno scienziato a Teheran il giorno dopo lo strike. Chi vorrà ancora lavorare al progetto quando tutto il tuo lavoro è andato perduto?”. Bergman pensa che questo countdown potrà concludersi soltanto in due modi: la fine d’Israele o del regime iraniano. “Questa guerra dei trent’anni è come un grande vulcano pieno di lava. Presto ci sarà una grande conflagrazione”.

domenica 29 luglio 2012

Grandi Condottieri: Eugenio di Savoia




Considerato unanimemente uno dei più grandi condottieri della storia, molto stimato da Napoleone, e considerato il vero artefice della rinascita militare dell'Impero asburgico nel XVIII secolo, Eugenio di Savoia fu anche il prototipo del militare "tout court".
Nato a Parigi il 18 ottobre 1663, quinto e ultimo maschio,  da Eugenio Maurizio di Savoia-Carignano duca di Soissons, e da Olimpia Mancini, vivace e intrigante nipote del cardinal Mazarino, di origine abruzzese, ma cresciuta alla corte di Francia con Luigi XIV, del quale fu prima compagna di giochi e poi amante. Questa presunta italianità della madre e la parentela con casa Savoia, venne sfruttata all'epoca del fascismo a fini propagandistici, come si può vedere nel seguente articolo del filosofo Julius Evola, apparso su "La Stampa" del 21 maggio 1943.

Eugenio di Savoia

Destinato alla carriera ecclesiastica, come tutti i figli cadetti, rifiutò questa scelta, preferendo quella militare, nonostante il fisico non prestante, e chiese al sovrano di accoglierlo nelle file del suo esercito. Ottenuto uno sprezzante rifiuto lasciò la Francia per l'Austria, dove venne accolto senza problemi ed inviato a combattere contro i Turchi. Ben presto Luigi XIV si pentirà amaramente di quel rifiuto.

lunedì 23 luglio 2012

La conflittualità contemporanea e l'attentato suicida


Interessante articolo di Andrea Beccaro apparso su sito di Istituto di Politica il 23 luglio 2012


Nei giorni scorsi si sono verificati due eventi che, sebbene ancora non del tutto chiariti, devono farci riflettere su un aspetto importante della conflittualità contemporanea: ci riferiamo in particolare all’attacco che ha colpito i vertici politici e militari siriani a Damasco e a quello che ha, invece, preso di mira un gruppo di turisti israeliani in Bulgaria.
Nella capitale siriana già da giorni si stavano svolgendo aspri combattimenti tra lealisti del governo di Assad e ribelli, l’attacco ha colpito al cuore il governo dal momento che ha causato la morte del ministro della Difesa, del suo vice che era anche il cognato di Assad, del capo della cellula di crisi che coordina le azioni contro i ribelli e del ministro degli Interni. In Bulgaria, invece, è stato colpito il primo autobus di una colonna di quattro che stavano portando turisti israeliani dall’aeroporto di Burgas alla stazione balneare Sunny Beach, sempre nei pressi della cittadina di Burgas. In questo frangente sono morti una decina di israeliani. La Bulgaria era diventata una meta turistica importante per i turisti israeliani da qualche anno a questa parte, ovvero dopo la crisi diplomatica con la Turchia che aveva di conseguenza bloccato il flusso turistico.
Anche se la dinamica di tali attentati non è ancora stata del tutto chiarita è giusto fermarsi un attimo a riflettere. Infatti, la pista più probabile per entrambi è quella dell’attentatore suicida, ovvero una della tattiche di attacco più utilizzate nelle guerre irregolari del mondo contemporaneo. Non è una novità visto che i primi attacchi di questo genere risalgono all’inizio degli anni ’80 (ad esempio l’attacco contro i Marines a Beirut nel 1982), ma nel corso del tempo il loro numero e il loro impatto “strategico” è aumentato. I teatri di guerra in cui questa tattica è stata maggiormente impiegata sono stati quello iracheno e afghano. Nel primo caso possiamo dire che la tattica dell’attacco suicida è stata quella prediletta, non tanto perché fosse quella predominante nel teatro ma perché in sette anni di conflitto (dal marzo 2003 al 2010) ha contato quasi la metà degli attacchi suicidi a livello globale a partire dal 1981: 2.713 sono quelli globali, 1.321 quelli registrati in Iraq. Anche il caso afghano è interessante da questo punto di vista poiché, pur essendo testimone di un minor numero di attacchi, ne ha contati circa 110 nel 2011 con un picco di circa 130 nel 2009.
Questa tattica spiega in modo esemplare la conflittualità contemporanea che il più delle volte vede contrapporsi da un lato un esercito regolare spesso altamente tecnologico o comunque con un livello tecnologico e di disponibilità belliche decisamente superiori al nemico, dall’altra un avversario irregolare, ovvero per dirla alla Schmitt che non rientra nella regolarità espressa dalla forma Stato. In tali contesti l’irregolare non solo deve saper sfruttare ciò che ha, ma deve anche riuscire a prolungare il conflitto e a renderlo particolarmente sanguinoso per l’avversario in modo che esso non possa vincere. Kissinger, a proposito della guerra del Vietnam, colse perfettamente il punto dicendo che l’esercito regolare perde se non vince, l’irregolare vince se non perde.
L’attacco suicida, visto il livello minimo di tecnologia che richiede e l’impatto mediatico che spesso riesce a ottenere, si sposa perfettamente con questa strategia di logoramento. Ma altre due le caratteristiche strategiche che appaiono, anche alla luce di questi attacchi, più importanti e inquietanti: la capacità di colpire con precisione l’obiettivo nemico e quella di farlo in profondità. La prima, la precisione, è esemplarmente dimostrata dall’attacco a Damasco in cui sono stati colpiti leader di spicco del regime: certamente non è stata una vera decapitazione del regime ma è stato senza dubbio un duro colpo. Non tutti gli attacchi suicidi riescono in questo intento, ma non ci sono dubbi che in tale tattica ci sia questa possibilità visto che sia in Iraq sia in Afghanistan è stato spesso utilizzata per attaccare all’interno edifici militari o politici sensibili. La seconda caratteristica, la profondità, è invece evidente nell’attacco contro i turisti israeliani colpiti non in Israele ma in luoghi lontani, e quasi inaspettati. Una potenza occidentale per condurre lo stesso attacco in profondità avrebbe dovuto impiegare o i tecnologici missili cruise o operazioni ad alto rischio con Forze speciali, ma l’attentatore suicida si dimostra egualmente efficace alla luce di risorse, economiche e tecnologiche, più ridotte.