lunedì 18 ottobre 2010

Raymond Aron: come essere liberali oggi. Parte prima

di Gian Luigi Destefanis
dottore in Scienze Politiche e in Scienze Strategiche
(1999)


Raymond Aron (Parigi 1905-1983) è considerato uno dei più autorevoli intellettuali europei di orientamento liberale del XX secolo, una specie di "ultimo illuminista"(1) nel quale, secondo lo studioso francese Nicolas Baverez "la ragione occupa lo stesso posto che occupa Dio in Pascal" e che si distingue per il suo raro equilibrio e per la serenità di giudizio storico e politico. Spettatore attento e commentatore puntuale egli fu sempre engagé, come colui che egli chiamava ironicamente il "piccolo compagno" Jean Paul Sartre, questo impegno però, salvo rari momenti, si sviluppò da "l'altra parte" e soprattutto non fu mai offuscato da "odio incontenibile" e neppure mitigato da condizionamenti politici o ideologici; per intenderci dubbi del tipo di quelli che assalivano Sartre non albergarono mai nel suo animo.
La sua vita è stata caratterizzata inoltre da una poliedricità di interessi da cui sono scaturite opere significative in diverse discipline accademiche dalla sociologia alla filosofia, dalla scienza politica all'economia, dalle Relazioni internazionali, agli Studi strategici.
Ebbe anche una intensa attività di editorialista e commentatore politico su "Le Figaro", quotidiano parigino di orientamento centrista, largamente diffuso anche all'estero.
Egli aveva un'altissima considerazione di questo lavoro e diceva:
il commentatore che non è legato ad un partito compie una sorta di pubblico servizio che non è né scientifico, né partigiano...
e ancora
Il commentatore ideale soprattutto in materia economica, è un sapiente illuminato e scettico, non prigioniero delle teorie - fossero anche le proprie - il quale conserva il gusto del singolare, il consenso al pragmatismo e il sorriso del buonsenso,
ed è possibile affermare che con i suoi articoli egli si è molto spesso avvicinato a questo idealtipo.
Questo impegno di pubblicista e commentatore politico lo ha portato qualche volta, come osserva Cofrancesco (2), a "volare basso" e questo è stato interpretato da taluni come incapacità di sollevarsi dalla superficie delle cose; il suo riflettere sulle conseguenze che le decisioni politiche o la stabilità o meno degli assetti di potere hanno sull'uomo della strada è stato considerato di minore importanza.
A distanza di tempo l'atteggiamento è cambiato ed è stata riconosciuta la validità di questo suo sforzo di indagare e mettere a fuoco tutti i problemi con "una grande e infinita modestia"come egli stesso amava affermare.


Nelle sue Memorie (1983) egli scrive ;
«contro i mali della civiltà industriale, le armi nucleari, l'inquinamento, la fame o la sovrapopolazione, non detengo il segreto di rimedi miracolosi, ma so che le credenze millenaristiche o i sofismi concettuali non servono a niente: preferisco l'esperienza, il sapere e la modestia»
Questo suo modo di procedere nell'esame dei vari problemi che affronta è stato apprezzato in particolare da Ralph Dahrendorf, che ha dichiarato «uno dei più rilevanti tratti del suo stile argomentativo è la puntuale considerazione dei pro e dei contra. Seguirlo è un godimento intellettuale anche se ci si chiede talora come faccia ad uscire dal labirinto dell'argomentare e del contro argomentare. Ma alla fine ne esce e con lui il lettore».

Aron nasce a Parigi nel 1905 da una famiglia benestante della borghesia ebraica, a 19 anni viene ammesso all'Ecole normale Supérieure, Quell'anno insieme a lui entrò anche J.P. Sartre. Conseguita la laurea in filosofia Aron continua, dal 1930 al 1932, i suoi studi nella Germania di Weimar, in questo periodo viene a contatto con le nuove impostazioni teoretiche di Husserl e Heiddegger, ma soprattutto ha modo di conoscere ed approfondire il pensiero di Weber, pensiero che avrà una notevole influenza sulla sua formazione. Questa permanenza gli offre anche l'occasione di assistere alle prime manifestazioni naziste, esperienza che lo lascia esterefatto, e che gli fa presagire, fin d'allora, l'imminente tragedia e valutare l'entità del pericolo che minacciava l'Europa.
Rientrato in Francia pubblicherà negli anni successivi alcune opere legate alla sua esperienza di studio in Germania.
1935: La sociologie allemande contemporaine (tr.it. 1980)
1938 La philosophie critique de l'histoire e Introduction à la philosophie de l'histoire.
Pur essendo in quel periodo politicamente vicino alla sinistra, all'avvento al potere del Fronte popolare, non condivide alcune scelte economiche, che andavano contro il suo realismo weberiano, e soprattutto critica le fratture politiche e le divisioni ideologiche che tormentano la Francia, in un momento così critico, e che rischiano di portare all'imminente probabile conflitto un paese diviso e dilaniato, con conseguenze tragiche.
Nel 1940 allo scoppio della guerra viene mobilitato e dopo la disfatta dell'esercito francese si rifugia a Londra, dove si unisce al movimento gollista, e diventa collaboratore di "La France libre". Pur essendo vicino a De Gaulle, non esita a criticarne le manifestazioni di autoritarismo, arrivando fino ad attribuirgli velleità bonapartiste.
Ben presto però si ricrederà di questo suo errore di giudizio, riconoscendo di aver sottovalutato le convinzioni repubblicane del generale e, subito dopo la guerra, si schiera con il generale nella sua disputa con i fondatori della quarta repubblica, anche nella convinzione che solo un governo forte e stabile avrebbe assicurato la ripresa del paese.
In quei primi anni del dopoguerra è ancora vicino alla sinistra, collabora con il quotidiano della sinistra democratica "Combat" diretto da Marcel Camus ed assieme a J.P. Sartre ed a Merleau-Ponty fonda la prestigiosa rivista "Temps Modernes".
Ma il tempo della rottura è ormai vicino, la convinta adesione di Aron al Piano Marshall prima e poi al Patto Atlantico, lo rendono inviso ai suoi vecchi amici, tutti ormai schierati su posizioni filo-sovietiche e questa ostilità lo induce a passare sul versante opposto iniziando a collaborare con "le Figaro".
Questo cambiamento di fronte non lo porta tuttavia a schierarsi con la destra colonialista. Durante la crisi d'Indocina e più tardi durante quella d'Algeria assume posizioni di condanna verso la politica del governo ed arriva a scrivere dalle colonne di un giornale filo-governativo come 'Le Figaro" che "i valori occidentali condannano ogni colonizzazione".
Nel 1958 sostiene il ritorno al potere di De Gaulle, e più tardi si schiererà a favore di Pompidou e di Giscard d'Estaing, senza peraltro militare mai nelle file del gaullismo. Può così mantenere quel distacco che gli consente di criticare certi atti che non condivide, quali l'uscita dalla Nato voluta da De Gaulle e la fronda atlantica dei suoi successori.
Interessante è anche la posizione presa da Aron sull'unità europea. Fin dai primi anni del dopoguerra è uno dei sostenitori della riconciliazione franco-tedesca. Riconosce la necessità per la Francia di rinunciare al suo ruolo di potenza mondiale ormai insostenibile, e di accontentarsi del ruolo di potenza regionale. Si dichiara fervente europeista oltre che atlantista, ma quando si presenta nel 1954 il problema della difesa comune europea si schiera a sorpresa contro il Piano di Jean Monnet.
Non ritiene infatti ragionevole "creare un esercito europeo senza aver previsto un'autorità politica europea" e condivide la posizione di De Gaulle e Mendès-France secondo i quali "perché ci sia un esercito europeo occorre prima che esista l"Europa come entità politica, economica, finanziaria e soprattutto morale".
Siamo alla metà degli anni '50 e dopo aver pubblicato due opere sul nuovo sistema internazionale che nasceva dalla guerra fredda:
-1948 Le grand schisme (Il grande scisma)
-1951 Les guerres en chaîne (Le guerre a catena)
nel 1955 pubblica un'opera di grande spessore polemico L'oppium des intellectuels (tr. it. 1958: L'oppio degli intellettuali)

con la quale come dice Antonio Zanfarino nel "Pensiero politico contemporaneo"(3), intende:
contrastare in anni cruciali di forte contrapposizione ideologica, le pretese dell'intellighenzia marxista di svolgere un'azione salvifica per una integrale conversione qualitativa della storia". pretesa che vuole non solo annientare la tradizione liberal-democratica, ma che vuole mettere fuori gioco anche le posizioni più equilibrate e ragionevoli della sinistra democratica.
Con questa opera, sempre citando lo Zanfarino, egli:
"ha denunciato nell'attività degli intellettuali marxisti le denigrazioni e gli anatemi che essi hanno riversato sui valori della civiltà occidentale, la loro pietà a senso unico, la loro smania di trascinare l'impazienza delle masse contro le corruzioni e alienazioni, artificiosamente esasperate, dei regimi liberali, democratici e riformisti e la loro acritica esaltazione dei regimi comunisti dell'Est, proposti anche per i nostri paesi come modelli di perfezione, come condizione di un progresso altrimenti impossibile".
Questo attacco non gli verrà perdonato e susciterà nella sinistra reazioni violente di rigetto. L'affronto non verrà facilmente dimenticato e un decennio più tardi Aron diventerà uno dei bersagli della contestazione studentesca; ma senza farsi intimorire egli sarà uno dei pochi intellettuali di punta, se non il solo, a schierarsi apertamente contro il montare della violenza studentesca, a criticare severamente l'inflazione di discorsi ideologici assurdi ed a condannare l'eccessiva indulgenza e il pernicioso paternalismo di molti colleghi della Sorbona. Questo suo severo atteggiamento gli varrà il rancore degli studenti e degli intellettuali di sinistra. Emblematico del clima di quegli anni lo slogan che circolava fra gli studenti "Meglio aver torto con Sartre che aver ragione con Aron". Questo clima lo induce a lasciare la cattedra di sociologia alla Sorbona che teneva dal 1956 per passare al Collegio di Francia ma, ancora a distanza di anni, sarà vittima di violente contestazioni. Invitato alla Ecole normale Supérioeure, per tenervi una conferenza, dovrà rinunciare per l'opposizione degli studenti.
Questo tuttavia non gli impedisce negli anni settanta di diventare uno degli intellettuali europei più stimati e ascoltati. Gli anni sessanta restano importanti nella sua vita anche per il notevole numero di opere che pubblica. Dal 1960 al 1969 escono in Francia ben 15 opere che spaziano nei vari settori indicati in precedenza, e molte di esse vengono anche tradotte in italiano.
Fra queste meritano di essere ricordate almeno:
1960 La démoctatie à l'épreuve du vingtième siècle (La democrazia alla prova del XX sec., tr. it.1960)
1962 Paix et guerre entre les nations (Pace e guerra tra le Nazioni, tr.it. 1970)


1964 La lutte des classes (La lotta di classe, tr. it. 1967)
1965 Démocratie et totalitarisme ( tr. it. Teoria dei regimi politici 1973)
1967 Les étapes de la pensée sociologique (Le tappe del pensiero sociologico, tr. it. 1972)
1969 D'une sainte famille l'autre (tr.it. Marxismi immaginari 1972)
Negli anni settanta il ritmo rallenta anche perché nel 1977 viene colpito da un tumore, al quale riesce a sopravvivere sei anni.
Nel 1976 aveva pubblicato dopo decenni di studi approfonditi quello che è considerato uno dei suoi capolavori Penser la guerre uno studio sull'opera del Clausewitz, purtroppo mai tradotto in italiano.
Dopo la sua morte avvenuta a Parigi nel 1983 sono uscite altre opere inedite e altre sono in corso di pubblicazione.
Si tratta di una vastissima produzione, Angelo Panebianco nel suo saggio introduttivo all'opera di Aron “La politica, la guerra, la storia” (Il Mulino, Bologna, 1992) elenca oltre cinquanta opere, moltissime delle quali però sono relative alla politica internazionale contemporanea e sulle quali lo stesso Aron nelle sue Memorie userà parole severamente autocritiche, giudicandole eccessivamente giornalistiche e troppo appiattite sugli interrogativi più contingenti.
Come filosofo Aron, al contrario di Jean Paul Sartre, non ha creato sistemi, anche perché a partire dal dopoguerra la sua attenzione si è rivolta prevalentemente ad altre discipline; tuttavia alcune convinzioni filosofiche che egli fa sue nella fase prebellica del suo lavoro di studioso, lo seguiranno per tutta la vita e daranno "coerenza e compattezza"(Panebianco: op. cit. p.15) alla sua opera.
Come già accennato al rientro dai suoi studi in Germania egli focalizza la sua attenzione sulla sociologia e lo storicismo tedeschi, soprattutto nell'opera, mai tradotta in italiano, "L'introduction à la philosophie de l'histoire" nella quale egli sottolinea gli aspetti relativi e trascendenti della storicità.
Egli sostiene che la storia non è retta da leggi necessarie e di conseguenza non si può parlare di obiettività storica in senso stretto; l'obiettività delle scienze storiche è solamente metodologica e quindi relativa. Questo punto di vista è all'origine della polemica che vedremo più avanti, contro il marxismo come dottrina che pretende di riconoscere nella storia una legge assoluta.
In campo accademico egli si è mosso prevalentemente nell'ambito della sociologia (Sorbona e Collegio di Francia) anche se Panebianco lo definisce "una figura anomala nel panorama delle scienze sociali .... il cui centro di interesse preminente se non esclusivo era la politica", tema intorno al quale, nella grande varietà dei suoi interessi, ha ruotato tutta la sua opera.
Lo stesso Panebianco però non trova comunque calzante definirlo "sociologo politico" in quanto la sua concezione della politica si differenzierebbe da "riduzionismo tipico delle principali scuole sociologiche, da quella durkheimeiana, a quella marxista" non accettando tesi secondo cui la politica sarebbe una sfera di attività "eteronoma", dipendente da "altro", si tratti, a seconda delle varie scuole della coscienza collettiva, della densità sociologica o dei rapporti di produzione.
Da questa visione derivano alcune idee che sono basilari per capire l'opera di Aron:
1) l'idea dell'autonomia della politica e della sua non riconducibilità ad altro da sé
2) l'idea del primato della politica intesa come sfera di attività da cui scaturiscono decisioni collettivamente vincolanti e proprio per questo sovraordinata agli altri ambiti societari.
A conferma di questo suo convincimento egli afferma in una pagina di "Teoria dei regimi politici": «È vero che un osservatore può considerare il volume della produzione globale o la ripartizione delle risorse come il fenomeno più importante. Per quel che riguarda l'uomo la politica è più importante dell'economia, diciamo per definizione, in quanto la politica concerne più direttamente il senso stesso dell'esistenza. I filosofi hanno sempre pensato che la vita umana è, per così dire, costituita dai rapporti con le persone. Vivere umanamente significa vivere con altri uomini. I rapporti degli uomini tra loro sono il fenomeno fondamentale di ogni collettività. Ora l'organizzazione dell'autorità influisce sul modo di vivere in maniera più diretta di qualsiasi altro aspetto della società».
Alcuni colleghi sociologi lo accusarono di scivolare con i suoi corsi alla Sorbona dalla sociologia alla scienza politica. La sua risposta fu che egli si sentiva di appartenere ad una tradizione sociologica diversa da quella dei Comte o dei Durkheim, una tradizione impegnata nello studio dei fenomeni politici colti nella loro autonomia e delle "condizioni e le conseguenze sociali del politico", che faceva riferimento ai Montesquieu e ai Tocqueville.
Ed in linea con questa sua concezione egli ha inserito nella sua opera "Le tappe del pensiero sociologico"(1967),


con un atto un poco azzardato secondo i suoi critici, questi due autori fra i padri fondatori della disciplina accanto ai soliti Comte, Marx, Durkheim, Weber e Pareto.
Ora questa distinzione dai suoi colleghi sociologi per il primato che assegna alla politica non deve indurci a ritenerlo per questo vicino agli scienziati politici, infatti egli si differenzia dalla maggior parte di loro per l'attenzione che porta ai rapporti fra la politica l'economia, e la società nel suo complesso.
Contrariamente ai molti politologi per i quali l'idea del primato della politica consiste nella convinzione che sia necessario studiare la dinamica politica considerata in isolamento dalle altre sfere dell'attività umana, Aron sosteneva che era necessario partire dalla politica per esplorare le interrelazioni fra i diversi aspetti del funzionamento della società. Secondo Panebianco Aron si muove sulla stessa linea di Giovanni Sartori, che nel suo saggio del 1968 "Alla ricerca della sociologia politica" arriva a conclusioni pressoché identiche pur partendo da premesse diverse.
Sociologia politica concepita, in sostanza, come strumento per comprendere i principi costitutivi dei sistemi sociali, partendo proprio dalla autonomia e dal primato della politica.
Sociologia anche collegata con la filosofia politica, e che esamina la società contemporanea rifacendosi ai metodi dei grandi pensatori politici del passato e riprendendone gli interrogativi.
Un tale tipo di sociologia poteva essere proposta e praticata solo in Europa in quanto si differenziava nettamente dalla impostazione statunitense che nel dopoguerra fu a lungo culturalmente egemone in questo settore.
La sociologia di Aron inoltre è sostanzialmente una sociologia "macro", in quanto ricostruisce la logica di funzionamento dei sistemi politici contemporanei nelle loro relazioni interne e con gli altri ambiti societari e questo avviene tenendo fermi quattro specificità proprie della tradizione sociologica europea:
1) il rifiuto del comportamentismo che per lungo tempo ha dominato nella sociologia e nella scienza politica statunitense, Aron è contrario alle spiegazioni naturalistiche dei comportamenti sociali;
2) il dialogo con la tradizione classica del pensiero politico europeo, contrariamente a quanto si è verificato nelle scienze sociali statunitensi, dove invece è abbastanza diffusa la tendenza a seguire l'esortazione di Robert Merton (4) di "dimenticare i propri progenitori".
Per quanto riguarda Aron, invece, non esiste alcun problema attinente alla politica attuale che egli non affronti partendo dall'esperienza dei classici;
3)l'attenzione alla dimensione storica dei fenomeni politici in opposizione alla tradizionale astoricità della scienza politica statunitense;
4)infine sul piano sostanziale, più che su quello metodologico, la concezione di Aron si riallaccia alla tradizione europea per la centralità che attribuisce al ruolo della guerra nella fenomenologia politica, attribuendole una importanza decisiva per la comprensione della politica, cosa che non si verifica nella scienza politica statunitense, dove l'analisi di fenomeni bellici viene delegata ad una sotto-disciplina specialistica, le Relazioni Internazionali.
Un altro aspetto importante nel pensiero di Aron, dopo quello della centralità della politica, è rappresentato dal ruolo che egli attribuisce alla democrazia intesa nel senso conferito al termine di Tocqueville.
Per Aron questo grande teorico della democrazia è colui che puù di ogni altro ha definito l'aspetto politico della modernità. In un saggio intitolato "Delle libertà" Aron scrive:
La democrazia, così come la concepisce ordinariamente Tocqueville viene definita essenzialmente come negazione dell'aristocrazia, la sparizione degli ordini privilegiati, la cancellazione delle distinzioni di status e, fra uomo e uomo, la tendenza a un'eguaglianza economica, a un'uniformità nel modo di vivere. Con l'aristocrazia sparisce il rapporto fra padrone e servitore. Ricchezza e potere tendono a dissociarsi. Il lavoro diventa l'attività onorata, normale, di tutti e di ciascuno.
Se per Comte (e anche per Marx) l'industrialismo era l'orizzonte insuperabile della nostra epoca, per Tocqueville essa è invece caratterizzata dalla legittimità  democratica: come osserva Cofrancesco (5) la sovranità popolare, piaccia o meno, rappresenta il principio cui fatalmente sono portati a richiamarsi tutti i regimi; essa non significa, necessariamente, organizzazione del dissenso, garanzie di libertà per individui e gruppi, ma solo che la forza dei governanti non può che derivare dal consenso dei governati (indipendentemente che si tratti di consenso fittizio o estorto) e che la giustificazione dei primi non può che trovarsi nella protezione legale e nella opportunità di vita assicurati (o promessi) ai secondi. 
Un altro aspetto importante nella teoria aroniana è quello della struttura elitistica del potere, ricavato principalmente da Mosca e Pareto.
Egli infatti dice che non si può concepire un potere che, in un certo modo, non sia oligarchico. Nell'opera "Teoria dei regimi politici" egli scrive:
L'essenza stessa della politica è che le decisioni vengono prese per e non dalla collettività. Le decisioni non potrebbero venir prese da tutti. La sovranità popolare non significa che la massa dei cittadini prenda essa stessa, direttamente, le decisioni relative alle finanze pubbliche o alla politica estera. È assurdo paragonare i regimi democratici moderni all'idea irrealizzabile di un regime in cui il popolo governi da sé.(p.112)
Egli trovava inutile denunciare, ad esempio, la classe dirigente sovietica in quanto detentrice del potere e dei privilegi ad esso legati: tutti i sistemi politici sono caratterizzati da una minoranza che governa e dal resto degli uomini che si conforma (o si adegua o si rassegna) alle sue decisioni.
Quello che invece è importante vedere è quali sono i concreti criteri di riferimento che permettono di stabilire differenze significative tra un'oligarchia e l'altra e pertanto bisogna chiarire (citando sempre dalla "Teoria dei regimi politici"):
In primo luogo: Chi fa parte dell'oligarchia? Chi fa parte della minoranza dominante e fino a che punto è faciel entrarvi? La minoranza che governa è un circolo più o meno aperto o chiuso?
In secondo luogo: Che genere di individui ha la possibilità, in qualsiasi tipo di regime, di accedere ai ranghi del personale politico?
Ed ancora: Quali sono i privilegi di cui godono i memebri della minoranza che governa?
Ed infine: Quali sono le garanzie che questo tipo di regime dà ai governanti? Chi, in un regime di questo tipo, possiede realmente il potere e che significato ha la nozione, comunemente usata, di "possedere il potere"? (p.112)
Si tratta di un tema sul quale Aron è tornato ripetutamente in numerosi saggi nei quali ha espresso alcune considerazioni importanti. 
Se la struttura dei gruppi dominanti determina l'essenza dei regimi politici, se 
non è lo stato delle forze produttive, ma lo stato delle forze politiche (...) che costituisce la causa principale delle variazioni nelle caratteristiche delle varie società, della caduta o dell'emergere di un tipo di società o un altro,(6)
ciò significa che sono e élites, in definitiva, a determinare al storia dei popoli.



Non c'è dubbio, scrive Aron in un altro saggio (7), che il sistema costituzionale proprio di ogni società ne costituisce un tratto caratteristico.  La vera natura di un sistema costituzionale si può tuttavia capire soltanto tenendo conto degli uomini che in realtà lo fanno funzionare.
La sua indagine sui sistemi pilitici prosegue con un confronto fra i regimi costituzionali e pluralistici, da un lato, e quelli a partito unico (o monopolistico), dall'altro.
Il confronto viene effettuato studiando i metodi e le forme istituzionali della competizione per il potere. Egli scrive che:
Ogni regime politico è caratterizzato dalla maniera particolare in cui regola i conflitti sociali e il rinnovamento dei gruppi al potere.
Egli approfondisce in particolare il sistema politico sovietico e quello occidentale, ponendoli su un palcoscenico comune: La società industriale. Entrambe le strutture di potere sono caratteizzate da sistemi produttivi, da obiettivi di crescita e di sviluppo che tendono a renderli simili.
Le società che si credono più nemiche, cioè quella sovietica e quella occidentale, sono meno diverse tra loro, nella misura in cui sono industrialmente sviluppate, di quanto lo siano entrambe da quelle società che si sono appena avviate sulla strada dell'industrializzazione. (8)
Quello che le differenzia è il regime politico!
Le società occidentali sono caratterizzate dalla dissociazione dei poteri:
Coloro che esercitano il potere in regime democratico sanno di dovere la loro situazione all'elezione; accettano in anticipo di buon grado di abbandonare le loro funzioni se il responso delle urne sarà, la volta seguente, sfavorevole. (9)
Vi è anche la separazione tra uomini politici e amministratori, fra funzionari pubblici e dirigenti industriali.
Esiste infine quella che viene chiamata l'organizzazione permanente dei non privilegiati a scopo rivendicativo, che però è guidata secondo Aron da persone che non pretendono di essere i latori di una verità suprema, ma sottoscrivono le regole del gioco e accettano il regime nel quale vivono.
Al contrario la società industriale di tipo sovietico è  caratterizzata dall'unificazione delle categorie che esercitano i poteri politici ed economici.
Gli stessi uomini sono membri del partito, dei mezzi di produzione o funzionari dei ministeri. Non ci sono carriere differenti per gli uni o per gli altri. (10)
Giunti al potere in seguito ad un processo rivoluzionario i capi:
vogliono essere a un tempo interpreti della verità suprema, dirigrnti politici e gestori del lavoro in comune (...) non possono non voler adempiere queste tre funzioni contemporaneamente perché pensano che la loro dottrina stia al di sopra delle religioni tradizionali e formuli la verità scientifica, perché ritengono che tramite loro, sia al governo lo stesso proletariato, (11) 
mentre i proprietari dei mezzi di produzione che, in quanto tali, sono sfruttatori, vanno eliminati.
Il dissenso viene represso in quanto in una società politica senza classi (o sulla via per esserlo) la pluralità politica che esprime l'antagonismo sociale non può essere tollerata.
Nei regimi comunisti, gli uomini di partito si vogliono contemporaneamente classe politica, gestori dell'economia e sacerdoti della religione secolare. In altre parole tendono ad unire nelle proprie mani, potere temporale e potere spirituale, l'esercizio del potere più significativamente politico e quello del potere amministrativo. (12)
Egli fa anche un'accurata analisi del ruolo centrale che assumono i partiti (o il partito) nei due sistemi. Il partito infatti è l'espressione privilegiata del principio di legittimità democratica che abbiamo visto in Tocqueville, al quale si richiamano tutti i regimi. Aron dice:
Il potere viene dal popolo; è nel popolo che risiede la sovranità. Di conseguenza la cosa più importante, in un'epoca in cui si accetta come evidente la sovranità democratica, è la modalità istituzionale della traduzione del principio democratico. (13)
Ed in questo quadro, tenuto conto che i regimi poltici, come abbiamo visto, hanno carattere oligarchico, il ruolo del partito assume una importanza essenziale per l'adempimento di una funzione che è di tutti i regimi politici: la scelta dei governanti.
Inoltre secondo Aron, esso consente di recuperare il criterio antico di classificazione dei regimi politici, che era basato sul numero dei detentori del potere, questo in una società nella quale in teoria tutti ne risultano titolari.
L'antitesi: uno, pochi, molti che non avrebbe ragione di esistere, trova così nei partiti il nuovo referente. Egli dice:
in un certo senso questa trasposizione può sembrare un pò strana perché il partito non ha esistenza ufficiale nelle costituzioni; essa tuttavia ha la sua ragion d'essere. I partiti sono, in certo modo, gli agenti dells vits politica; è nei partiti che si lotta per arrivare in prima fila, è per mezzo deipartiti che si accede all'esercizio del potere. Dunque, ponendo la domanda: esistono uno o più partiti, applico alla vita politica moderna una opposizione classica nella filosofia del passato. (14)
Il partito inoltre rappresenta il punto cruciale per determinare la dissociazione tra il detentore de jure della sovranità e il detentore de facto del potere, che rende impossibile la democrazia repubblicana della "polis" e rende necessario il ricorso alla rappresentanza, per la quale, senza dubbio, risulta decisivo il fatto che ci siano uno o più partiti.
Per Aron:
i partiti sono l'elemento attivo della politica, è tra i partiti o all'interno di essi che si svolge il gioco politico, che ci si dà battaglia. Una delle principali caratteristiche dei sistemi moderni è di considerare il conflitto come fatto normale. Accettare come criterio l'unicità e la pluralità dei aprtiti significa giudicarela modalità di organizzazione della lotta di parte una caratteristica dei regimi politici contemporanei. (15)
Per quanto riguarda i sistemi di partito unico Aron non nega che possano avere una certa presa sulle masse:
vi sono ragioni che possono indurre un uomo sano di mente ad essere fautore del regime sovietico, lasciando da parte l'ideologia ufficiale.(16)
Il convincimento dell'operaio di non essere vittima dello sfruttamento, dal momento che sono scomparsi  i capitalisti - il che comporta l'eliminazione di un fattore psicologico di conflitto; la possibiltà per il governo, di fissare, attraverso la pianificazione e la mobilitazione dall'alto delle risorse, le priorità produttive, senza essere vincolato dal disordine del mercato; la maggiore disposizione ad affrontare sacrifici, in termini di reddito individuale, in virtù della "chiarezza del bilancio sociale e dell'enfasi delle autorità pubbliche sui grandi obiettivi da raggiungere. (17)
Resta però il fatto che certe soglie di liberalizzazione non possono essere superate, pena la crisi della supremazia del potere, ma vanno amntenuti il monopolio dell'attività politica da parte del partito, il primato dell'ideologia che conferisce a quest'ultimo un'autorità asoluta; il controllo dei mezzi di comunicazione e degli dtrumenti di violenza.
In sostanza il gruppo dirigente sovietico si identifica in toto col regime politico e questo coincide con la teorie elitistica coniugata da Aron, però mancano le strutture di controllo e di contenimento e le regole del gioco sono dettate e condivise dalla sola parte attiva del sistema: il partito unico.
Tutti questo ci porta a spiegare il crollo dei regimi a partito unico con la battuta che chiude il saggio di Cofrancsco:
i regimi comunisti non sono caduti perché c'era troppo stato, ma perché nono ce n'era affatto, o meglio, perché al posto dello stato c'era il partito. (18)

FINE PRIMA PARTE
la seconda parte può essere consultata qui
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(1) Dino Cofrancesco, "R. Aron: Democrazia e Totalitarismo" in AA. VV., Il pensiero politico europeo [1945-1989], CET, Firenze, 1994, p.23
(2) op. cit., p. 21
(3) Antonio Zanfarino, Il pensiero politico contemporaneo, Marano Editore, Napoli, 1994, p.563

(4) Primo e più significativo esponente del "funzionalismo critico": necessità di integrare sociologia e ricerca empirica sull'analisi della struttura sociale da un punto di vista funzionalistico.
(5) Dino Cofrancesco,  op. cit., p. 25
(6) "Classe sociale, classe politica, classe dirigente (1960)", in Raymond Aron, La politica, la guerra, la storia, a cura di Angelo Panebianco, il Mulino, Bologna, 1992, p. 307,
(7) "Struttura sociale e classe dominante (1950)", c. s., p. 285
(8) Raymond Aron, Teoria dei regimi politici, edizioni di Comunità, Milano, 1973, p. 304
(9) Raymond Aron, La lotta di classe, edizioni di Comunità, Milano, 1982, p. 128
(10) Ibidem, p. 131
(11) Ibidem, p. 127-128
(12) Raymond Aron, Memorie, 50 anni di riflessione politica, Mondadori, Milano, 1984, p. 411
(13) Raymond Aron, Teoria dei regimi politici, cit., p. 83
(14) Ivi
(15) Ibidem, p. 84
(16) Ibidem, p.116
(17) Ibidem, p.18
(18) Dino Cofrancesco, op. cit., p. 36