lunedì 18 ottobre 2010

Raymond Aron: come essere liberali oggi. Parte prima

di Gian Luigi Destefanis
dottore in Scienze Politiche e in Scienze Strategiche
(1999)


Raymond Aron (Parigi 1905-1983) è considerato uno dei più autorevoli intellettuali europei di orientamento liberale del XX secolo, una specie di "ultimo illuminista"(1) nel quale, secondo lo studioso francese Nicolas Baverez "la ragione occupa lo stesso posto che occupa Dio in Pascal" e che si distingue per il suo raro equilibrio e per la serenità di giudizio storico e politico. Spettatore attento e commentatore puntuale egli fu sempre engagé, come colui che egli chiamava ironicamente il "piccolo compagno" Jean Paul Sartre, questo impegno però, salvo rari momenti, si sviluppò da "l'altra parte" e soprattutto non fu mai offuscato da "odio incontenibile" e neppure mitigato da condizionamenti politici o ideologici; per intenderci dubbi del tipo di quelli che assalivano Sartre non albergarono mai nel suo animo.
La sua vita è stata caratterizzata inoltre da una poliedricità di interessi da cui sono scaturite opere significative in diverse discipline accademiche dalla sociologia alla filosofia, dalla scienza politica all'economia, dalle Relazioni internazionali, agli Studi strategici.
Ebbe anche una intensa attività di editorialista e commentatore politico su "Le Figaro", quotidiano parigino di orientamento centrista, largamente diffuso anche all'estero.
Egli aveva un'altissima considerazione di questo lavoro e diceva:
il commentatore che non è legato ad un partito compie una sorta di pubblico servizio che non è né scientifico, né partigiano...
e ancora
Il commentatore ideale soprattutto in materia economica, è un sapiente illuminato e scettico, non prigioniero delle teorie - fossero anche le proprie - il quale conserva il gusto del singolare, il consenso al pragmatismo e il sorriso del buonsenso,
ed è possibile affermare che con i suoi articoli egli si è molto spesso avvicinato a questo idealtipo.
Questo impegno di pubblicista e commentatore politico lo ha portato qualche volta, come osserva Cofrancesco (2), a "volare basso" e questo è stato interpretato da taluni come incapacità di sollevarsi dalla superficie delle cose; il suo riflettere sulle conseguenze che le decisioni politiche o la stabilità o meno degli assetti di potere hanno sull'uomo della strada è stato considerato di minore importanza.
A distanza di tempo l'atteggiamento è cambiato ed è stata riconosciuta la validità di questo suo sforzo di indagare e mettere a fuoco tutti i problemi con "una grande e infinita modestia"come egli stesso amava affermare.


Nelle sue Memorie (1983) egli scrive ;
«contro i mali della civiltà industriale, le armi nucleari, l'inquinamento, la fame o la sovrapopolazione, non detengo il segreto di rimedi miracolosi, ma so che le credenze millenaristiche o i sofismi concettuali non servono a niente: preferisco l'esperienza, il sapere e la modestia»
Questo suo modo di procedere nell'esame dei vari problemi che affronta è stato apprezzato in particolare da Ralph Dahrendorf, che ha dichiarato «uno dei più rilevanti tratti del suo stile argomentativo è la puntuale considerazione dei pro e dei contra. Seguirlo è un godimento intellettuale anche se ci si chiede talora come faccia ad uscire dal labirinto dell'argomentare e del contro argomentare. Ma alla fine ne esce e con lui il lettore».

Aron nasce a Parigi nel 1905 da una famiglia benestante della borghesia ebraica, a 19 anni viene ammesso all'Ecole normale Supérieure, Quell'anno insieme a lui entrò anche J.P. Sartre. Conseguita la laurea in filosofia Aron continua, dal 1930 al 1932, i suoi studi nella Germania di Weimar, in questo periodo viene a contatto con le nuove impostazioni teoretiche di Husserl e Heiddegger, ma soprattutto ha modo di conoscere ed approfondire il pensiero di Weber, pensiero che avrà una notevole influenza sulla sua formazione. Questa permanenza gli offre anche l'occasione di assistere alle prime manifestazioni naziste, esperienza che lo lascia esterefatto, e che gli fa presagire, fin d'allora, l'imminente tragedia e valutare l'entità del pericolo che minacciava l'Europa.
Rientrato in Francia pubblicherà negli anni successivi alcune opere legate alla sua esperienza di studio in Germania.
1935: La sociologie allemande contemporaine (tr.it. 1980)
1938 La philosophie critique de l'histoire e Introduction à la philosophie de l'histoire.
Pur essendo in quel periodo politicamente vicino alla sinistra, all'avvento al potere del Fronte popolare, non condivide alcune scelte economiche, che andavano contro il suo realismo weberiano, e soprattutto critica le fratture politiche e le divisioni ideologiche che tormentano la Francia, in un momento così critico, e che rischiano di portare all'imminente probabile conflitto un paese diviso e dilaniato, con conseguenze tragiche.
Nel 1940 allo scoppio della guerra viene mobilitato e dopo la disfatta dell'esercito francese si rifugia a Londra, dove si unisce al movimento gollista, e diventa collaboratore di "La France libre". Pur essendo vicino a De Gaulle, non esita a criticarne le manifestazioni di autoritarismo, arrivando fino ad attribuirgli velleità bonapartiste.
Ben presto però si ricrederà di questo suo errore di giudizio, riconoscendo di aver sottovalutato le convinzioni repubblicane del generale e, subito dopo la guerra, si schiera con il generale nella sua disputa con i fondatori della quarta repubblica, anche nella convinzione che solo un governo forte e stabile avrebbe assicurato la ripresa del paese.
In quei primi anni del dopoguerra è ancora vicino alla sinistra, collabora con il quotidiano della sinistra democratica "Combat" diretto da Marcel Camus ed assieme a J.P. Sartre ed a Merleau-Ponty fonda la prestigiosa rivista "Temps Modernes".
Ma il tempo della rottura è ormai vicino, la convinta adesione di Aron al Piano Marshall prima e poi al Patto Atlantico, lo rendono inviso ai suoi vecchi amici, tutti ormai schierati su posizioni filo-sovietiche e questa ostilità lo induce a passare sul versante opposto iniziando a collaborare con "le Figaro".
Questo cambiamento di fronte non lo porta tuttavia a schierarsi con la destra colonialista. Durante la crisi d'Indocina e più tardi durante quella d'Algeria assume posizioni di condanna verso la politica del governo ed arriva a scrivere dalle colonne di un giornale filo-governativo come 'Le Figaro" che "i valori occidentali condannano ogni colonizzazione".
Nel 1958 sostiene il ritorno al potere di De Gaulle, e più tardi si schiererà a favore di Pompidou e di Giscard d'Estaing, senza peraltro militare mai nelle file del gaullismo. Può così mantenere quel distacco che gli consente di criticare certi atti che non condivide, quali l'uscita dalla Nato voluta da De Gaulle e la fronda atlantica dei suoi successori.
Interessante è anche la posizione presa da Aron sull'unità europea. Fin dai primi anni del dopoguerra è uno dei sostenitori della riconciliazione franco-tedesca. Riconosce la necessità per la Francia di rinunciare al suo ruolo di potenza mondiale ormai insostenibile, e di accontentarsi del ruolo di potenza regionale. Si dichiara fervente europeista oltre che atlantista, ma quando si presenta nel 1954 il problema della difesa comune europea si schiera a sorpresa contro il Piano di Jean Monnet.
Non ritiene infatti ragionevole "creare un esercito europeo senza aver previsto un'autorità politica europea" e condivide la posizione di De Gaulle e Mendès-France secondo i quali "perché ci sia un esercito europeo occorre prima che esista l"Europa come entità politica, economica, finanziaria e soprattutto morale".
Siamo alla metà degli anni '50 e dopo aver pubblicato due opere sul nuovo sistema internazionale che nasceva dalla guerra fredda:
-1948 Le grand schisme (Il grande scisma)
-1951 Les guerres en chaîne (Le guerre a catena)
nel 1955 pubblica un'opera di grande spessore polemico L'oppium des intellectuels (tr. it. 1958: L'oppio degli intellettuali)

con la quale come dice Antonio Zanfarino nel "Pensiero politico contemporaneo"(3), intende:
contrastare in anni cruciali di forte contrapposizione ideologica, le pretese dell'intellighenzia marxista di svolgere un'azione salvifica per una integrale conversione qualitativa della storia". pretesa che vuole non solo annientare la tradizione liberal-democratica, ma che vuole mettere fuori gioco anche le posizioni più equilibrate e ragionevoli della sinistra democratica.
Con questa opera, sempre citando lo Zanfarino, egli:
"ha denunciato nell'attività degli intellettuali marxisti le denigrazioni e gli anatemi che essi hanno riversato sui valori della civiltà occidentale, la loro pietà a senso unico, la loro smania di trascinare l'impazienza delle masse contro le corruzioni e alienazioni, artificiosamente esasperate, dei regimi liberali, democratici e riformisti e la loro acritica esaltazione dei regimi comunisti dell'Est, proposti anche per i nostri paesi come modelli di perfezione, come condizione di un progresso altrimenti impossibile".
Questo attacco non gli verrà perdonato e susciterà nella sinistra reazioni violente di rigetto. L'affronto non verrà facilmente dimenticato e un decennio più tardi Aron diventerà uno dei bersagli della contestazione studentesca; ma senza farsi intimorire egli sarà uno dei pochi intellettuali di punta, se non il solo, a schierarsi apertamente contro il montare della violenza studentesca, a criticare severamente l'inflazione di discorsi ideologici assurdi ed a condannare l'eccessiva indulgenza e il pernicioso paternalismo di molti colleghi della Sorbona. Questo suo severo atteggiamento gli varrà il rancore degli studenti e degli intellettuali di sinistra. Emblematico del clima di quegli anni lo slogan che circolava fra gli studenti "Meglio aver torto con Sartre che aver ragione con Aron". Questo clima lo induce a lasciare la cattedra di sociologia alla Sorbona che teneva dal 1956 per passare al Collegio di Francia ma, ancora a distanza di anni, sarà vittima di violente contestazioni. Invitato alla Ecole normale Supérioeure, per tenervi una conferenza, dovrà rinunciare per l'opposizione degli studenti.
Questo tuttavia non gli impedisce negli anni settanta di diventare uno degli intellettuali europei più stimati e ascoltati. Gli anni sessanta restano importanti nella sua vita anche per il notevole numero di opere che pubblica. Dal 1960 al 1969 escono in Francia ben 15 opere che spaziano nei vari settori indicati in precedenza, e molte di esse vengono anche tradotte in italiano.
Fra queste meritano di essere ricordate almeno:
1960 La démoctatie à l'épreuve du vingtième siècle (La democrazia alla prova del XX sec., tr. it.1960)
1962 Paix et guerre entre les nations (Pace e guerra tra le Nazioni, tr.it. 1970)


1964 La lutte des classes (La lotta di classe, tr. it. 1967)
1965 Démocratie et totalitarisme ( tr. it. Teoria dei regimi politici 1973)
1967 Les étapes de la pensée sociologique (Le tappe del pensiero sociologico, tr. it. 1972)
1969 D'une sainte famille l'autre (tr.it. Marxismi immaginari 1972)
Negli anni settanta il ritmo rallenta anche perché nel 1977 viene colpito da un tumore, al quale riesce a sopravvivere sei anni.
Nel 1976 aveva pubblicato dopo decenni di studi approfonditi quello che è considerato uno dei suoi capolavori Penser la guerre uno studio sull'opera del Clausewitz, purtroppo mai tradotto in italiano.
Dopo la sua morte avvenuta a Parigi nel 1983 sono uscite altre opere inedite e altre sono in corso di pubblicazione.
Si tratta di una vastissima produzione, Angelo Panebianco nel suo saggio introduttivo all'opera di Aron “La politica, la guerra, la storia” (Il Mulino, Bologna, 1992) elenca oltre cinquanta opere, moltissime delle quali però sono relative alla politica internazionale contemporanea e sulle quali lo stesso Aron nelle sue Memorie userà parole severamente autocritiche, giudicandole eccessivamente giornalistiche e troppo appiattite sugli interrogativi più contingenti.
Come filosofo Aron, al contrario di Jean Paul Sartre, non ha creato sistemi, anche perché a partire dal dopoguerra la sua attenzione si è rivolta prevalentemente ad altre discipline; tuttavia alcune convinzioni filosofiche che egli fa sue nella fase prebellica del suo lavoro di studioso, lo seguiranno per tutta la vita e daranno "coerenza e compattezza"(Panebianco: op. cit. p.15) alla sua opera.
Come già accennato al rientro dai suoi studi in Germania egli focalizza la sua attenzione sulla sociologia e lo storicismo tedeschi, soprattutto nell'opera, mai tradotta in italiano, "L'introduction à la philosophie de l'histoire" nella quale egli sottolinea gli aspetti relativi e trascendenti della storicità.
Egli sostiene che la storia non è retta da leggi necessarie e di conseguenza non si può parlare di obiettività storica in senso stretto; l'obiettività delle scienze storiche è solamente metodologica e quindi relativa. Questo punto di vista è all'origine della polemica che vedremo più avanti, contro il marxismo come dottrina che pretende di riconoscere nella storia una legge assoluta.
In campo accademico egli si è mosso prevalentemente nell'ambito della sociologia (Sorbona e Collegio di Francia) anche se Panebianco lo definisce "una figura anomala nel panorama delle scienze sociali .... il cui centro di interesse preminente se non esclusivo era la politica", tema intorno al quale, nella grande varietà dei suoi interessi, ha ruotato tutta la sua opera.
Lo stesso Panebianco però non trova comunque calzante definirlo "sociologo politico" in quanto la sua concezione della politica si differenzierebbe da "riduzionismo tipico delle principali scuole sociologiche, da quella durkheimeiana, a quella marxista" non accettando tesi secondo cui la politica sarebbe una sfera di attività "eteronoma", dipendente da "altro", si tratti, a seconda delle varie scuole della coscienza collettiva, della densità sociologica o dei rapporti di produzione.
Da questa visione derivano alcune idee che sono basilari per capire l'opera di Aron:
1) l'idea dell'autonomia della politica e della sua non riconducibilità ad altro da sé
2) l'idea del primato della politica intesa come sfera di attività da cui scaturiscono decisioni collettivamente vincolanti e proprio per questo sovraordinata agli altri ambiti societari.
A conferma di questo suo convincimento egli afferma in una pagina di "Teoria dei regimi politici": «È vero che un osservatore può considerare il volume della produzione globale o la ripartizione delle risorse come il fenomeno più importante. Per quel che riguarda l'uomo la politica è più importante dell'economia, diciamo per definizione, in quanto la politica concerne più direttamente il senso stesso dell'esistenza. I filosofi hanno sempre pensato che la vita umana è, per così dire, costituita dai rapporti con le persone. Vivere umanamente significa vivere con altri uomini. I rapporti degli uomini tra loro sono il fenomeno fondamentale di ogni collettività. Ora l'organizzazione dell'autorità influisce sul modo di vivere in maniera più diretta di qualsiasi altro aspetto della società».
Alcuni colleghi sociologi lo accusarono di scivolare con i suoi corsi alla Sorbona dalla sociologia alla scienza politica. La sua risposta fu che egli si sentiva di appartenere ad una tradizione sociologica diversa da quella dei Comte o dei Durkheim, una tradizione impegnata nello studio dei fenomeni politici colti nella loro autonomia e delle "condizioni e le conseguenze sociali del politico", che faceva riferimento ai Montesquieu e ai Tocqueville.
Ed in linea con questa sua concezione egli ha inserito nella sua opera "Le tappe del pensiero sociologico"(1967),


con un atto un poco azzardato secondo i suoi critici, questi due autori fra i padri fondatori della disciplina accanto ai soliti Comte, Marx, Durkheim, Weber e Pareto.
Ora questa distinzione dai suoi colleghi sociologi per il primato che assegna alla politica non deve indurci a ritenerlo per questo vicino agli scienziati politici, infatti egli si differenzia dalla maggior parte di loro per l'attenzione che porta ai rapporti fra la politica l'economia, e la società nel suo complesso.
Contrariamente ai molti politologi per i quali l'idea del primato della politica consiste nella convinzione che sia necessario studiare la dinamica politica considerata in isolamento dalle altre sfere dell'attività umana, Aron sosteneva che era necessario partire dalla politica per esplorare le interrelazioni fra i diversi aspetti del funzionamento della società. Secondo Panebianco Aron si muove sulla stessa linea di Giovanni Sartori, che nel suo saggio del 1968 "Alla ricerca della sociologia politica" arriva a conclusioni pressoché identiche pur partendo da premesse diverse.
Sociologia politica concepita, in sostanza, come strumento per comprendere i principi costitutivi dei sistemi sociali, partendo proprio dalla autonomia e dal primato della politica.
Sociologia anche collegata con la filosofia politica, e che esamina la società contemporanea rifacendosi ai metodi dei grandi pensatori politici del passato e riprendendone gli interrogativi.
Un tale tipo di sociologia poteva essere proposta e praticata solo in Europa in quanto si differenziava nettamente dalla impostazione statunitense che nel dopoguerra fu a lungo culturalmente egemone in questo settore.
La sociologia di Aron inoltre è sostanzialmente una sociologia "macro", in quanto ricostruisce la logica di funzionamento dei sistemi politici contemporanei nelle loro relazioni interne e con gli altri ambiti societari e questo avviene tenendo fermi quattro specificità proprie della tradizione sociologica europea:
1) il rifiuto del comportamentismo che per lungo tempo ha dominato nella sociologia e nella scienza politica statunitense, Aron è contrario alle spiegazioni naturalistiche dei comportamenti sociali;
2) il dialogo con la tradizione classica del pensiero politico europeo, contrariamente a quanto si è verificato nelle scienze sociali statunitensi, dove invece è abbastanza diffusa la tendenza a seguire l'esortazione di Robert Merton (4) di "dimenticare i propri progenitori".
Per quanto riguarda Aron, invece, non esiste alcun problema attinente alla politica attuale che egli non affronti partendo dall'esperienza dei classici;
3)l'attenzione alla dimensione storica dei fenomeni politici in opposizione alla tradizionale astoricità della scienza politica statunitense;
4)infine sul piano sostanziale, più che su quello metodologico, la concezione di Aron si riallaccia alla tradizione europea per la centralità che attribuisce al ruolo della guerra nella fenomenologia politica, attribuendole una importanza decisiva per la comprensione della politica, cosa che non si verifica nella scienza politica statunitense, dove l'analisi di fenomeni bellici viene delegata ad una sotto-disciplina specialistica, le Relazioni Internazionali.
Un altro aspetto importante nel pensiero di Aron, dopo quello della centralità della politica, è rappresentato dal ruolo che egli attribuisce alla democrazia intesa nel senso conferito al termine di Tocqueville.
Per Aron questo grande teorico della democrazia è colui che puù di ogni altro ha definito l'aspetto politico della modernità. In un saggio intitolato "Delle libertà" Aron scrive:
La democrazia, così come la concepisce ordinariamente Tocqueville viene definita essenzialmente come negazione dell'aristocrazia, la sparizione degli ordini privilegiati, la cancellazione delle distinzioni di status e, fra uomo e uomo, la tendenza a un'eguaglianza economica, a un'uniformità nel modo di vivere. Con l'aristocrazia sparisce il rapporto fra padrone e servitore. Ricchezza e potere tendono a dissociarsi. Il lavoro diventa l'attività onorata, normale, di tutti e di ciascuno.
Se per Comte (e anche per Marx) l'industrialismo era l'orizzonte insuperabile della nostra epoca, per Tocqueville essa è invece caratterizzata dalla legittimità  democratica: come osserva Cofrancesco (5) la sovranità popolare, piaccia o meno, rappresenta il principio cui fatalmente sono portati a richiamarsi tutti i regimi; essa non significa, necessariamente, organizzazione del dissenso, garanzie di libertà per individui e gruppi, ma solo che la forza dei governanti non può che derivare dal consenso dei governati (indipendentemente che si tratti di consenso fittizio o estorto) e che la giustificazione dei primi non può che trovarsi nella protezione legale e nella opportunità di vita assicurati (o promessi) ai secondi. 
Un altro aspetto importante nella teoria aroniana è quello della struttura elitistica del potere, ricavato principalmente da Mosca e Pareto.
Egli infatti dice che non si può concepire un potere che, in un certo modo, non sia oligarchico. Nell'opera "Teoria dei regimi politici" egli scrive:
L'essenza stessa della politica è che le decisioni vengono prese per e non dalla collettività. Le decisioni non potrebbero venir prese da tutti. La sovranità popolare non significa che la massa dei cittadini prenda essa stessa, direttamente, le decisioni relative alle finanze pubbliche o alla politica estera. È assurdo paragonare i regimi democratici moderni all'idea irrealizzabile di un regime in cui il popolo governi da sé.(p.112)
Egli trovava inutile denunciare, ad esempio, la classe dirigente sovietica in quanto detentrice del potere e dei privilegi ad esso legati: tutti i sistemi politici sono caratterizzati da una minoranza che governa e dal resto degli uomini che si conforma (o si adegua o si rassegna) alle sue decisioni.
Quello che invece è importante vedere è quali sono i concreti criteri di riferimento che permettono di stabilire differenze significative tra un'oligarchia e l'altra e pertanto bisogna chiarire (citando sempre dalla "Teoria dei regimi politici"):
In primo luogo: Chi fa parte dell'oligarchia? Chi fa parte della minoranza dominante e fino a che punto è faciel entrarvi? La minoranza che governa è un circolo più o meno aperto o chiuso?
In secondo luogo: Che genere di individui ha la possibilità, in qualsiasi tipo di regime, di accedere ai ranghi del personale politico?
Ed ancora: Quali sono i privilegi di cui godono i memebri della minoranza che governa?
Ed infine: Quali sono le garanzie che questo tipo di regime dà ai governanti? Chi, in un regime di questo tipo, possiede realmente il potere e che significato ha la nozione, comunemente usata, di "possedere il potere"? (p.112)
Si tratta di un tema sul quale Aron è tornato ripetutamente in numerosi saggi nei quali ha espresso alcune considerazioni importanti. 
Se la struttura dei gruppi dominanti determina l'essenza dei regimi politici, se 
non è lo stato delle forze produttive, ma lo stato delle forze politiche (...) che costituisce la causa principale delle variazioni nelle caratteristiche delle varie società, della caduta o dell'emergere di un tipo di società o un altro,(6)
ciò significa che sono e élites, in definitiva, a determinare al storia dei popoli.



Non c'è dubbio, scrive Aron in un altro saggio (7), che il sistema costituzionale proprio di ogni società ne costituisce un tratto caratteristico.  La vera natura di un sistema costituzionale si può tuttavia capire soltanto tenendo conto degli uomini che in realtà lo fanno funzionare.
La sua indagine sui sistemi pilitici prosegue con un confronto fra i regimi costituzionali e pluralistici, da un lato, e quelli a partito unico (o monopolistico), dall'altro.
Il confronto viene effettuato studiando i metodi e le forme istituzionali della competizione per il potere. Egli scrive che:
Ogni regime politico è caratterizzato dalla maniera particolare in cui regola i conflitti sociali e il rinnovamento dei gruppi al potere.
Egli approfondisce in particolare il sistema politico sovietico e quello occidentale, ponendoli su un palcoscenico comune: La società industriale. Entrambe le strutture di potere sono caratteizzate da sistemi produttivi, da obiettivi di crescita e di sviluppo che tendono a renderli simili.
Le società che si credono più nemiche, cioè quella sovietica e quella occidentale, sono meno diverse tra loro, nella misura in cui sono industrialmente sviluppate, di quanto lo siano entrambe da quelle società che si sono appena avviate sulla strada dell'industrializzazione. (8)
Quello che le differenzia è il regime politico!
Le società occidentali sono caratterizzate dalla dissociazione dei poteri:
Coloro che esercitano il potere in regime democratico sanno di dovere la loro situazione all'elezione; accettano in anticipo di buon grado di abbandonare le loro funzioni se il responso delle urne sarà, la volta seguente, sfavorevole. (9)
Vi è anche la separazione tra uomini politici e amministratori, fra funzionari pubblici e dirigenti industriali.
Esiste infine quella che viene chiamata l'organizzazione permanente dei non privilegiati a scopo rivendicativo, che però è guidata secondo Aron da persone che non pretendono di essere i latori di una verità suprema, ma sottoscrivono le regole del gioco e accettano il regime nel quale vivono.
Al contrario la società industriale di tipo sovietico è  caratterizzata dall'unificazione delle categorie che esercitano i poteri politici ed economici.
Gli stessi uomini sono membri del partito, dei mezzi di produzione o funzionari dei ministeri. Non ci sono carriere differenti per gli uni o per gli altri. (10)
Giunti al potere in seguito ad un processo rivoluzionario i capi:
vogliono essere a un tempo interpreti della verità suprema, dirigrnti politici e gestori del lavoro in comune (...) non possono non voler adempiere queste tre funzioni contemporaneamente perché pensano che la loro dottrina stia al di sopra delle religioni tradizionali e formuli la verità scientifica, perché ritengono che tramite loro, sia al governo lo stesso proletariato, (11) 
mentre i proprietari dei mezzi di produzione che, in quanto tali, sono sfruttatori, vanno eliminati.
Il dissenso viene represso in quanto in una società politica senza classi (o sulla via per esserlo) la pluralità politica che esprime l'antagonismo sociale non può essere tollerata.
Nei regimi comunisti, gli uomini di partito si vogliono contemporaneamente classe politica, gestori dell'economia e sacerdoti della religione secolare. In altre parole tendono ad unire nelle proprie mani, potere temporale e potere spirituale, l'esercizio del potere più significativamente politico e quello del potere amministrativo. (12)
Egli fa anche un'accurata analisi del ruolo centrale che assumono i partiti (o il partito) nei due sistemi. Il partito infatti è l'espressione privilegiata del principio di legittimità democratica che abbiamo visto in Tocqueville, al quale si richiamano tutti i regimi. Aron dice:
Il potere viene dal popolo; è nel popolo che risiede la sovranità. Di conseguenza la cosa più importante, in un'epoca in cui si accetta come evidente la sovranità democratica, è la modalità istituzionale della traduzione del principio democratico. (13)
Ed in questo quadro, tenuto conto che i regimi poltici, come abbiamo visto, hanno carattere oligarchico, il ruolo del partito assume una importanza essenziale per l'adempimento di una funzione che è di tutti i regimi politici: la scelta dei governanti.
Inoltre secondo Aron, esso consente di recuperare il criterio antico di classificazione dei regimi politici, che era basato sul numero dei detentori del potere, questo in una società nella quale in teoria tutti ne risultano titolari.
L'antitesi: uno, pochi, molti che non avrebbe ragione di esistere, trova così nei partiti il nuovo referente. Egli dice:
in un certo senso questa trasposizione può sembrare un pò strana perché il partito non ha esistenza ufficiale nelle costituzioni; essa tuttavia ha la sua ragion d'essere. I partiti sono, in certo modo, gli agenti dells vits politica; è nei partiti che si lotta per arrivare in prima fila, è per mezzo deipartiti che si accede all'esercizio del potere. Dunque, ponendo la domanda: esistono uno o più partiti, applico alla vita politica moderna una opposizione classica nella filosofia del passato. (14)
Il partito inoltre rappresenta il punto cruciale per determinare la dissociazione tra il detentore de jure della sovranità e il detentore de facto del potere, che rende impossibile la democrazia repubblicana della "polis" e rende necessario il ricorso alla rappresentanza, per la quale, senza dubbio, risulta decisivo il fatto che ci siano uno o più partiti.
Per Aron:
i partiti sono l'elemento attivo della politica, è tra i partiti o all'interno di essi che si svolge il gioco politico, che ci si dà battaglia. Una delle principali caratteristiche dei sistemi moderni è di considerare il conflitto come fatto normale. Accettare come criterio l'unicità e la pluralità dei aprtiti significa giudicarela modalità di organizzazione della lotta di parte una caratteristica dei regimi politici contemporanei. (15)
Per quanto riguarda i sistemi di partito unico Aron non nega che possano avere una certa presa sulle masse:
vi sono ragioni che possono indurre un uomo sano di mente ad essere fautore del regime sovietico, lasciando da parte l'ideologia ufficiale.(16)
Il convincimento dell'operaio di non essere vittima dello sfruttamento, dal momento che sono scomparsi  i capitalisti - il che comporta l'eliminazione di un fattore psicologico di conflitto; la possibiltà per il governo, di fissare, attraverso la pianificazione e la mobilitazione dall'alto delle risorse, le priorità produttive, senza essere vincolato dal disordine del mercato; la maggiore disposizione ad affrontare sacrifici, in termini di reddito individuale, in virtù della "chiarezza del bilancio sociale e dell'enfasi delle autorità pubbliche sui grandi obiettivi da raggiungere. (17)
Resta però il fatto che certe soglie di liberalizzazione non possono essere superate, pena la crisi della supremazia del potere, ma vanno amntenuti il monopolio dell'attività politica da parte del partito, il primato dell'ideologia che conferisce a quest'ultimo un'autorità asoluta; il controllo dei mezzi di comunicazione e degli dtrumenti di violenza.
In sostanza il gruppo dirigente sovietico si identifica in toto col regime politico e questo coincide con la teorie elitistica coniugata da Aron, però mancano le strutture di controllo e di contenimento e le regole del gioco sono dettate e condivise dalla sola parte attiva del sistema: il partito unico.
Tutti questo ci porta a spiegare il crollo dei regimi a partito unico con la battuta che chiude il saggio di Cofrancsco:
i regimi comunisti non sono caduti perché c'era troppo stato, ma perché nono ce n'era affatto, o meglio, perché al posto dello stato c'era il partito. (18)

FINE PRIMA PARTE
la seconda parte può essere consultata qui
------
(1) Dino Cofrancesco, "R. Aron: Democrazia e Totalitarismo" in AA. VV., Il pensiero politico europeo [1945-1989], CET, Firenze, 1994, p.23
(2) op. cit., p. 21
(3) Antonio Zanfarino, Il pensiero politico contemporaneo, Marano Editore, Napoli, 1994, p.563

(4) Primo e più significativo esponente del "funzionalismo critico": necessità di integrare sociologia e ricerca empirica sull'analisi della struttura sociale da un punto di vista funzionalistico.
(5) Dino Cofrancesco,  op. cit., p. 25
(6) "Classe sociale, classe politica, classe dirigente (1960)", in Raymond Aron, La politica, la guerra, la storia, a cura di Angelo Panebianco, il Mulino, Bologna, 1992, p. 307,
(7) "Struttura sociale e classe dominante (1950)", c. s., p. 285
(8) Raymond Aron, Teoria dei regimi politici, edizioni di Comunità, Milano, 1973, p. 304
(9) Raymond Aron, La lotta di classe, edizioni di Comunità, Milano, 1982, p. 128
(10) Ibidem, p. 131
(11) Ibidem, p. 127-128
(12) Raymond Aron, Memorie, 50 anni di riflessione politica, Mondadori, Milano, 1984, p. 411
(13) Raymond Aron, Teoria dei regimi politici, cit., p. 83
(14) Ivi
(15) Ibidem, p. 84
(16) Ibidem, p.116
(17) Ibidem, p.18
(18) Dino Cofrancesco, op. cit., p. 36

giovedì 8 aprile 2010

Usa e Russia firmano accordi SALT 2

Le grandi potenze tornano a dialogare. Speriamo che serva a frenare la follia iraniana. Qui di seguito un primo lancio d'agenzia
Usa e Russia firmano accordi: "PRAGA - Tutto il mondo con gli occhi su Praga, per un evento che rappresenta l'ennesimo segno di 'distensione' tra Stati Uniti e Russia, oggi alleati e comunemente impegnati nello smantellamento dei rispettivi arsenali atomici."

giovedì 25 febbraio 2010

Pace nella guerra di Pier Paolo Ottonello

Interessante saggio filosofico sul problema della pace e della guerra del prof.

Pier Paolo Ottonello

Professore di filosofia a l'Università di Genova,


Il nostro tempo appare, da un lato, segnato da supreme esortazioni affinché non ci siano mai più guerre: esortazioni senza eguali nella storia a noi più nota, e forse accostabili solo alle esortazioni e alle minacce profetiche veterotestamentarie. Perché, d'altro lato, forse mai la storia di cui si abbia qualche memoria ha conosciuto come quella dal novecento ad oggi il proliferare e l'universalizzarsi non solo delle forme più consuete della guerra, ma di un loro straordinario moltiplicarsi, sembrerebbe secondo dinamiche di mutazioni a catena: il novecento, fra le sue grande invenzioni, registra anche quella della guerra mondiale. Di conseguenza ha moltiplicato anche i tentativi di arginare questo immane franamento, ad esempio con nuovi strumenti internazionali e, possibilmente, sovranazionali. Al tempo stesso, in ogni caso, rafforzando le cosiddette "paci armate", edizioni odierne di ciò che la romanità ha ben espresso nel noto detto si vis pacem para bellum; dunque inventando anche, come dopo‑guerra mondiale, la "guerra fredda".


I greci, con Eraclito, pongono in primo piano la necessità della guerra metafisica per conseguire sempre di nuovo l'ordine metafisico, nella chiave della connessione vitale di caos e di ordine, di polemos e logos, di guerra e armonia. I greci ci insegnano anche quella che non è certo una delle mirabolanti scoperte delle cosiddette scienze psicologiche e sociologiche, ossia che solo l'uomo conosce la paura in forme tanto intense e durevoli, oltre che molteplici: distinguendo fondamentalmente fra deimos, terrore, e phobos, paura; ossia, in modo molto approssimativo, fra la percezione di un pericolo tanto grande e inevitabile che di fronte ad esso non ha senso nessun tentativo di fuga, in quanto inutile, sicché se ne resta paralizzati; e pericoli che ci inducono a moti di fuga in rapporto alla percezione che si possa con qualche successo tentar di evitarli combattendoli. E pone la connessione fortemente significativa fra paura e maschera, sostanziale e illusorio, verità e menzogna: una serie di connessioni che per se stessa include una serie ben più ampia di conflitti e guerre fra i poli che vi si connettono; guerre perenni, non superabili né estinguibili, finché appunto si distingua, anzitutto, verità e menzogna. La dialettica propria del mondo greco dà rilievo massimo a tali guerre perenni e insieme concepisce il logos, senza il quale non possono avere nessun significato, come la possibilità della loro profonda mediazione. In questo senso si può dire che il mondo classico nella sua generalità concepisce come normale lo stato di conflitto, di guerra nelle sue molteplici forme, il cui significato o ragione, logos, è la vita stessa come sviluppo e ciclo. A livello superficiale è facilissimo riconoscere analogie forti tra il naturalismo fondamentale proprio di tale concezione e, ad esempio la concezione della struggle of life tipica del positivismo e materialismo oggi dominanti non solo nelle scienze nella politica nell'economia.
Ma d'altro lato il mondo classico pone in primo piano anche un'altra accezione di guerra che la contemponeità per lo più cerca di glissare e relegare in ultimo piano: intendo riferirmi alla guerra spirituale – dunque non solo "psicologica"! – come la guerra prima, la più dura e ardua, la radice di tutte le forme di guerra esteriore, in tutti i casi in cui si svolga in direzione disordinatrice anziché di perfezionamento di un ordine e di ordini sempre più ampi e inclusivi. Questo significato implica che nessuna guerra esteriore può terminare concludendosi con una vera pace se con una vera pace non si conclude la guerra interiore che l'ha generata.
Il mondo greco ce lo insegna in particolare nelle sue connessioni, profonde e per lo più sotterranee, con l'ebraismo. Emergono con forza ad esempio in Filone Alessandrino, là dove sottolinea la tesi secondo la quale chi non ubbidisce a Dio ma a più dèi genera, per ciò stesso, guerre entro sé medesimo, le quali fomentano le guerre esteriori: la loro causa fondamentale si comprende appieno solo ritrovandola entro le innumerevoli forme di idolatria e politeismo. È dunque una tesi che vale ieri come oggi. Ed è tesi che si conferma e compie nell'Apocalisse, in modo radicalmente nuovo rispetto al mondo greco. Secondo l'Apocalisse la guerra è infatti stato perenne di questo mondo, che terminerà soltanto con la caduta di Satana (12, 7; 20, 4‑6): donde i nuovi cieli e la nuova terra, quelli appunto della pace non offuscabile.
D'altro lato è ben noto che la fondamentale concezione della pace propria della classicità si compendia in termini di tranquillità (esychia) come quieto possesso della prosperità. In questo senso la pace è sempre e solo "tregua", assenza di guerra come intervallo fra guerre, le quali sono necessarie, di volta in volta, per assicurarsi la prosperità, o per accrescerla. Nella romanità un Orazio, nei suoi Carmi (4, 15) fa culminare la pax romana augustea con il porre fine alla guerra in quanto tale rinnovando l'età dell'oro: ma si tratta forse piuttosto di conformismo retorico che non di profonda persuasione che si è veramente riapprodati al felice evo originario. Invece Marco Aurelio riconduce il problema della pace alla sua essenziale dimensione interiore come galene, ossia contravveleno che riarmonizza l'anima (De tranquillitate animae, 19).
La greca pace come tranquillità, eirene, nel greco della traduzione della Bibbia è spesso fusa con l'ebraico šalōm, che si può tradurre anzitutto come salute, ed implica in modo essenziale ciò che la garantisce, ossia il patto di alleanza per la mia salute (Is. 54, 10), che ha una base materiale e una culminazione spirituale: in sostanza designa la non guerra frutto di accordi e riconciliazione e, al tempo stesso, il dono che è solo da Dio, la salvezza. In tale senso il Messia è chiamato «principe della pace» (Is. 9, 5). Questo peraltro conferma l'essenziale inclusione in tale significato di una accezione politica, cioè riguardante il governo della comunità. Anche a questo proposito resta perennemente valida la denuncia di Geremia (28): «sanano in modo semplicistico i mali del popolo e gridano: salute, salute, ma non è vera salute».
La pace e la tranquillità sia nella tradizione classica sia in quella veterotestamentaria restano dunque contrassegnate da un significato essenzialmente in negativo, cioè come non guerra, in sostanza sottintendendo la sua natura di intervallo fra guerre, di tregua che si può tentar di prolungare in modo indefinito ponendo in atto equilibri di forze sempre più accortamente gestiti, mediante accordi frutto di patteggiamenti, scambi e compromessi. In questo senso prevale un significato essenzialmente politico della pace, che può essere generata dall'impegno umano in vista di più ampie convenienze e in ordine alla quale la buona volontà è volontà di riuscita nell'intento di raggiungere equilibri il più possibile stabilizzati. Prima ancora che pace della persona singola è dunque pace sociale come equilibrio relativo alla comunità.
La pace in senso evangelico non nega questo tipo di pace: ma sconvolge nel modo più radicale il significato più profondo della pace. Infatti la pace in terra è solo quella degli uomini di buona volontà: è propria degli operatori di pace delle beatitudini (Mt. 5, 9), ossia di coloro la cui volontà aderisca alla Volontà di Dio, il Dio della pace (Rom. 16, 20; Ef. 2, 14‑15), l'Incarnato che dà la sua pace, ma essendo venuto a portare non la pace ma la guerra (Mt. 10, 34). La metanoia della pace pone dunque una guerra sino alla fine dei tempi fra pace vera e intera e pace falsa e parziale, fra pace come la dà il mondo, ossia come equilibrismo fra beni e mali, e la pace dell'Innocente da ogni male, in guerra contro ogni male e dunque di Colui che si fa la Vittima delle guerre del mondo vincendole, essendo l’Unico che può vincere la guerra alle guerre; però non togliendo ogni male dal mondo, bensì rigettandolo, nel perfetto Amore che dona la propria vita pura intera a chiunque abbia perduto la propria vita intera ossia la vita spirituale, avendo ridotto la guerra interiore a lotta per salvare la propria vita parziale, la vita terrena.
È posto così lo spartiacque assoluto e perenne. Ogni tranquillità terrena è frutto di compromessi per far pace con il male: è la pace propria di tutti i pacifismi, che si riducono a gridi contro, senza impegnarsi nella carità necessariamente martire dell'operare la pace. Infatti la vera pace è solo la guerra inesausta contro ogni male. Ed è pace vera che non può vincersi da soli, ma che è vinta in ogni operatore di pace solo dall'Amore di Dio grazie al quale amo e opero la sua Volontà. L'operatore di pace non può dunque essere mai "tranquillo", ma deve essere radicalmente e senza sosta "irrequieto", attivissimo nell'invenzione delle forme della carità, perciò agli antipodi delle "agitazioni" pacifiste: irrequieto agostinianamente, cioè in guerra senza limite solo con se stesso e solo contro ogni male, ossia disordine, fino alla tranquillità dell'ordine, nella perfetta quiete dell'amore per la Volontà di Dio Amore, che è la vera pace (De civ. Dei, XIX, 13, 1).


Ma qual è l'essenza dell'ordine? Proprio questo problema è il cratere dal quale erompe il fuoco di tutte le guerre, ciascuna delle quali tenta di imporre il proprio ordine, che perciò non può non essere se non parziale, certamente non universale. L'unico ordine assoluto è quello dell'Amore assoluto di Dio creante e ricreante l'amore totale dell'amore per Dio e nell'amore per Dio amore per l'intero creato: è il circolo dell'unico amore universale, che non noi generiamo, ma che siamo riconoscendolo totalmente come generanteci e rigeneranteci. L'ardua coerenza dell'amore è la pace somma della guerra come odio contro ogni altro odio, contro ogni male come disamore, o amore disordinato, contro il male amare agostiniano. L'unica vera pace è il vero amore che è l'odio di ogni disordine: dunque odio per la propria vita che si riduca a temporalità finita per salvarla interamente ed eternamente. Il problema perenne delle guerre e delle paci è assunto e sciolto in modo assoluto in Dio Incarnato crocifisso risorto. L'intelligenza umana nella sua integralità come integralità della persona, se non si fosse autodepotenziata e dunque obnubilata, sarebbe perfettamente capace di pensare come pienamente razionale la logica della Croce: rifà l'intelligenza capace di intelligerla, sebbene in modo sempre perfettibile nella vita terrena. Può dunque intelligere il significato primo e ultimo della pace vera come guerra spirituale e delle guerre esteriori come dinamica di disentegrazione e di annichilimento della guerra spirituale.
L'odierno grido "mai più guerre" che si leva nell'ultimo quarantennio – dalla Pacem in terris: grido solitario nel deserto che la guerra è e accresce – è drammatica risposta alla normalizzazione di tutte le guerre. Una normalizzazione che a sua volta è il corrispettivo del progressivo globalizzarsi delle ingovernabilità: dalle società più semplici a quelle più ampie e complesse, cioè dalla persona stessa nella sua singolarità alla società coniugale e famiglia re e alle società di nazioni. A chiunque guerreggi è evidente che la propria azione non può essere risolutiva in modo sostanziale e duraturo: può solo generare forme di guerra più deterrenti allo scopo di bloccare, rendendole impotenti, forme anteriori meno perfette, meno potenti. La logica della guerra è far guerra alle forme minori di guerra eliminandole entro la guerra totale per più duratura pace. È la medesima logica della pace, dell'amore che tende alla perfezione, all'assolutezza: ma in senso negativo, cercando "equilibri" fra mali, frutto in realtà di disordinanti equilibrismi fra mali minori e mali maggiori, in modo che questi sempre l'abbiano vinta sui primi, ossia i beni minori sui beni maggiori. Così, vinta la guerra maggiore contro il Bene assoluto, cioè evasa ogni "tentazione del bene e dell'ottimo", resta solo spazio per il progresso come perfezionamento nel negativo e nella distruzione.
Dall’età illuministica si succede un crescente sbandieramento di paci che tentano maggiori inclusività e durate e, insieme, una crescente esplosione di guerre sempre più estese e radicali. Bastino come esempi le opere di De Castel, Memorie per rendere la pace perpetua in Europa, del 1712, e, di Kant, la più nota Pace perpetua del 1795: scritti nati in due periodi segnati nel modo più profondo da guerre internazionali e da forme nuove di guerra, le rivoluzioni.


Qualche decennio dopo, Hegel ne segna la massima normalizzazione teoretica, concependo le guerre come un bene che conserva la salute etica dei popoli: una sorta di raffinato eraclitismo di ritorno. Da Hegel a oggi esaltazioni della guerra e guerre sempre più ampie si rincorrono a ritmi sempre più forsennati: sino alla follia che, nella seconda metà dell'Ottocento, proclama la guerra come un "fatto divino", secondo il giudizio che Proudhon formula nell'opera La guerra e la pace del 1861; o come il principio stesso del progresso, secondo la determinazione proposta dal Matille nella sua Filosofia della guerra del 1874.
Dopo gli ottimi tentativi di porre i principi di una pace planetaria compiuti da Leibniz, e di dar vita a un ordine internazionale nella giustizia, proposta, quest'ultima, formulata da Rosmini e rimasta inascoltata e ignorata, continua a crescere l’ingovernabilità normalizzata e planetarizzata, parallelamente al crescere di organismi internazionali – ma non veramente sovranazionali, cioè sostanzialmente ordinati e giusti –, che dovrebbero garantire le paci come equilibri ed equilibrismi fra le guerre e le potenze e le forze, in realtà identificate con le forze economiche. Dopo le guerre mondiali, che sono state il centro di tutte le forme di guerra del Novecento, gli organismi internazionali sono divenuti essenzialmente voci e strumenti della tecnocrazia planetaria, frutto dell'economicismo con il quale si sono identificate le politiche cosiddette "forti" dei raggruppamenti economici più potenti, che hanno realizzato una forma di sovranazionalismo che cresce nella misura in cui riduce le persone a soggettività autoconsumantesi, a persone fictae, involucri o maschere del niente di spirito. Per esse lo spirito è, tutt'al più, l'ultimo toccasana del "ridere per vivere" entro l'ultima superetica del "vivere per ridere".
Siamo stellarmente lontani da ogni sentore di combattimento spirituale, di quella violenza su se stessi senza cui non si apre il Regno dei Cieli ossia della guerra alla propria superbia per annichilirla nella guerra della pazienza e della buona perseveranza che alimenta la nostra milizia come necessaria e costantemente vigile. Spogliarsi della propria superbia è far sfolgorare la ricchezza dello spirito di povertà, nel cui regno, scrive S. Caterina da Siena, «non c'è mai guerra, ma sempre pace e quiete» (Dialogo, n. 151). Lo spirito di autosufficienza è infatti l'origine di tutte le pessime guerre: spogliarsene è fuggire – scrive Rosmini nelle Massime di perfezione (lez. IV, pp. 45‑46) – dalla «cecità di mente» e dall’«occulto orgoglio», bandendo perciò ogni «inquietudine, e ogni specie di ansietà». La carità universale, l'unico alimento del bene personale e comune, è il martirio del farsi integra della persona, intera e perfetta nell'offerta totale di sé alla Provvidenza amorosissima e misericordiosissima. La pace, come non la può dare il mondo più pacifista e soddisfatto, è dunque solo dono di Dio agli uomini di buona volontà: a coloro che si fanno testimoni della carità. Le paci del mondo che generano pacifismi in realtà generano maschere e alibi di guerre sempre più profondamente distruttive – con i genocidi degli aborti e dell'eutanasia –, avendo esse già radicalmente distrutto ogni significato di guerra spirituale. Gli antipodi della guerra spirituale oggi sono rappresentati dalle guerre sedicenti sante in quanto combattute in nome di Dio: Dio ne è l'assoluta maschera e alibi. La loro unica verità è il nulla di ogni assoluto, l'assoluto Nulla.

«La felicità è un'astrattezza; la felicità non esiste, semplicemente»; «l'opposto della felicità non è il dolore (...) ma la gioia"; "la forza è la capacità di essere noi la gioia degli altri»[1]. La felicità, in sostanza, sarebbe costituita da tentativi di fuggire il dolore, per quanto alti; e la gioia dalla metanoia e trasfigurazione delle sofferenze, interamente consumata nell'amore del prossimo. Quanto meno, siamo di fronte a un esempio fortemente significativo di accezioni di felicità e di gioia che ben di rado possono riconoscersi, nei medesimi termini, nell'oceano di riflessioni e trattazioni sulla felicità che possiamo trovare nei testi delle maggiori civiltà.
La minima riflessione evidenzia che la felicità, comunque intesa, è, come nessun altro, l'obiettivo fondamentale di ogni persona, in ogni suo atto; e dunque, per quanto implicitamente, è il più profondo sostrato anche di ogni suo riflettere e comunicare. In questo senso amplissimo è appropriato usare come sinonimi felicità e amore. Anche nel senso in cui li usano Caterina da Siena e Rosmini. L'uomo è «creato per amore», «non è fatto d'altro che d'amore, secondo l'anima e secondo il corpo", scrive Caterina (lettera 196). E Rosmini, nella Teosofia (n. 1032), conferma la tesi che aveva affacciato, non ancora trentenne, nel Saggio sopra la felicità e nella Eudemonologia. L'essenza della vita – queste, in sintesi, le sue tesi – è sentimento e lotta contro tutto ciò che tende a diminuire o a impedire il piacere o a conseguirlo perfettamente: la vita diretta tende ad unire princìpi e termini, l'unione dei, quali. è appunto il piacere; la vita di riflessione tende a conoscere e godere l'unione dei princìpi e dei termini attraverso la coscienza del piacere, la quale è appagamento e compimento della felicità. Il suo ultimo fine, la sua perfezione, è la beatitu­dine. Se la persona umana non trae la felicità da Dio, ne resta radicalmente privo; anzi, per giunta, moltiplica sofferenze e infelicità.
Se interroghiamo chiunque, oggi, su felicità, piacere e benessere, credo che del tutto eccezionalmente si riconoscerebbe nei due esempi che ho portato e che propongo come sommi; e quasi che il secondo sia in sostanza una esplicitazione del primo. Per lo più, invece, oggi dovremmo prendere atto di distanze forse grandissime, abissali, da tali esempi. E se, d'altro lato, li confrontiamo con l'immane percorso storico dei significati di felicità e piacere, dunque anche con l'uso linguistico della miriade dei termini che possiamo concepire come aggregati intorno al loro centro, ritengo che ritroveremmo quelle distanze, e che scopriremmo una molteplicità di distanze ulteriori.
Non di rado, un termine usato in posizione cardinale da parte di un determinato autore può essere il medesimo usato nella medesima posizione da altro autore magari storicamente lontano, ma con significati più o meno distanti. Senza questo tipo di chiarificazione è tanto più arduo ogni fondato orientarsi sui fondamenti di tali problemi; la cui immane determinazione conferma anche almeno pari estensione dell'infelicità, ossia dell'assenza e lontananza della felicità: tanto più significativa quanto più pienamente si riconosca che la vita umana è, in quanto tale, e perciò comunque, ricerca della felicità, in quanto questa corrisponde al suo tendere al compimento perfetto. In questo senso, le posizioni in assoluto più superficiali sono quelle scettiche: in modo affatto equivalente, tutte le forme di pessimismo quanto tutte le forme di ottimismo. Infatti si limitano a considerare il classico bicchiere come non mai colmo, oppure come non ancora colmo: senza con ciò contribuire affatto alla comprensione delle dinamiche della sua funzione; cioè, fuori d'immagine, senza il minimo progresso nell'intelligenza del problema in rapporto al fine della persona.
Sta infatti in relazione determinante con la concezione della persona il criterio di confronto e valutazione delle innumerevoli considerazioni sul tema, così nel passato come nell'oggi. Il qualsiasi sociologo ci dirà in proposito: se vi serve, vi presento una lista delle documentate determinazioni del problema; ma non so dirvi se vi serva, né come possa servirvi, al di là della considerazione di elementi comuni estraibili dalla maggioranza delle persone che si riconosca in alcune piuttosto che in altre determinazioni; in modo che si possano identificare la "normalità" della persona e la "normatività" delle società con le determinazioni del problema in cui appunto la maggioranza si riconosca. Questa considerazione, fra l'altro, ci consente di formulare l'ipotesi, tutt'altro che astratta, anzi anche troppo attuale, che quello che oggi consideriamo reato o delitto, magari come frutto o espressione della società stessa, dei suoi diversi raggruppamenti, sino ai "branchi" – espressione che tende a sostituire quella di raggruppamenti, affiancandosi a più vecchi termini, ad ampia gamma conformista, quali cricca, banda, consorteria, clan, lobby ecc., non dopodomani, ma domani, la maggioranza lo consideri qualcosa come una “festa di gruppo”, o come socializzazione liberatoria, o felicità ludica, e via dicendo. Come minimo, tutto ciò sarebbe conseguenza del fatto che avremo identificato e confuso in modo crescente felicità e piacere, soggettività e socialità, considerando espressione di pienezza della nietzscheana "innocenza del divenire" il "ludico" imperativo assoluto del "come mi va qui e ora", sia che "vada" anche al gruppo, sia che no: restanto intangibile il mio isolamento come condizione del mio piacere, in quanto è al suo interno che posso catturare e padroneggiare gli strumenti di volta in volta consumabili per il mio piacere.
Una volta di più è facile, di fronte a questo tipo di esempi, cadere in una illusione diottica storica, dando per scontato che simili manifestazioni odierne, sia che le consideriamo pessime sia che le consideriamo progressi, straordinari, siano storicamente nuove. Platone afferma che il male è immobile. Ma il bene, eterno, è comunque il dinamismo della storia. Caterina da Siena scrive: «lo voglia o meno, il mondo (...) rende gloria a Dio» (Dialogo, n. 80).
Anche per evitare, per quanto possibile quest'illusione di ottica storica – ma d'altro lato anche ogni concezione deterministica del problema, la quale in effetti lo azzera –, è necessario gettare qualche sguardo, pur sommario, al passato, con le sue ricchezze per lo più non immaginate; nel caso arriviamo a immaginarne o intravederne, l’atteggiamento piú immediato e facile è limitarci a qualche scrollata di spalle, magari nobilitata dall'alibi del premere delle attualità più urgenti del problema.
Il buon Varrone, da preenciclopedista, conta ben ottantotto teorie della felicità: ammesso che il suo risulti un computo ben costruito, con un criterio analogo quante decine dovremmo forse aggiungerne per i successivi circa due millenni? Oppure dovremmo toglierne? In ogni caso, lasciando ora da parte questo tipo di categorizzazione, occorre quanto meno muovere da alcuni termini essenziali per la comprensione dello sviluppo storico del problema. Mi limito ad alcuni principali. È noto che edoné significa principalmente piacere sensibile; ma in Platone è usato anche nel senso di godimento del bene, del vero, del bello; e Aristotele lo connette all'esercizio delle virtù. Invece nell'uso biblico equivale alla realtà che si oppone a Dio ed è nemica dell'uomo stesso, riducendolo a guerra fra passioni. Eudaimonia si riferisce essenzialmente alla felice sorte di un uomo: phronesis è la saggezza come prudenza di vita, il cui frutto è l’eirene, ossia la pace come tranquillità. E makarios designa lo stato di beatitudine degli déi, ma anche quello degli uomini nella vita ultraterrena in quanto priva di tutte le traversie delle quali quella terrena non va esente. Nella tradizione biblica, makarios è colui che è beato per pienezza di vita, in quanto benedetto da Dio. Se chairo nel greco classico si riferisce ad una soddisfazione tutta umana e ordinaria, nel greco biblico ha significati straordinariamente più ricchi, riferendosi alla pienezza della gioia umana – anche nella sofferenza – in quanto è riconoscenza a Dio: significato che tanto più si illumina ed eleva nei più noti termini charisma, eucharisteo ed eucharistia.
Se per Democrito la felicità è l'equilibrio fra difetti ed eccessi, e per Aristippo è la somma dei piaceri, presenti, passati e possibili, per Epicuro sarà frutto del giudizio sulla natura dei beni conseguibili: naturali e necessari, naturali e non necessari, e non naturali e non necessari. La grande saggezza umana che traluce in questi soli tre esempi per lo più si colora di toni propri di amare esperienze, elevate a insegnamenti. anche proverbiali, nei tragici e negli storici greci. Due soli esempi. Sofocle nell'Aiace (v. 550): «la vita più dolce sta nel non avere alcun pensiero». Ed Erodoto, riferendosi a Creso: «prima che uno sia morto non chiamiamolo felice, ma fortunato». Ma è ben noto che, anche in rapporto a tali problemi, Platone e Aristotele restano i pensatori più ricchi e storicamente fecondi. Più ricco il primo e più storicamente presente il secondo. Infatti per Platone la felicità umana si attua nella misura della tensione al Bene in sé, sino al possesso della giustizia, della bellezza e dell'armonia, o temperanza (Gorgia, 508b e Conv., 202c). Aristotele nell'Etica nicomachea (I, 4) conclude invece che è vano ricercare il Bene assoluto, così come vano è parlare di beatitudine dopo la morte.



Ma proprio entro tale orizzontalizzazione del problema, espressione massima del naturalismo ellenico, Aristotele articola quest'ordine di argomenti in termini che si proietteranno in gran parte sino all'oggi, e non solo per la mediazione di Tommaso. È noto infatti, che per Aristotele è felice chi possiede le tre specie di beni: quelli esterni, quelli del corpo e quelli dell'anima (Et. nic., 1153 b 17) I primi, che si possono conseguire anche per fortuna, sono utili come mezzi; ma, oltre questa loro funzione, «diventano dannosi o inutili»; mentre invece i beni dell'anima «tanto più sono abbondanti, tanto più sono utili» (Pol., VII, 2, 1323 b 8). I beni dell'anima costituiscono la piena felicità, ma in quanto essa è «propria degli uomini indipendenti» (Et. eud., VII, 2, 1238 a 12), ossia è frutto unicamente del perseguimento non di ciò che è semplicemente piacevole, ma delle virtù, di cui la più nobile e alta è quella propria dell'intelligenza contemplativa, la pienezza della quale è la beatitudine. La definizione agostiniana della beatitudine come «gaudium de veritate» (De vita beata, 35), nonché quella tommasiana della felicità propria della perfezione dell'uomo come bene perfetto di natura intellettuale, che ne conseguirebbe; paiono a tutta prima forme di aristotelismo. In realtà, specie in Agostino, e, tramite Agostino e Pseudo‑Dionigi, il cosiddetto intellettualismo ellenico, ricco anche dei percorsi platonici, si compie in modo essenziale nella dimensione cristiana della caritas, come amore veritativo, intelligenza d'amore, non senza incastonature dei motivi plotiniani connessi al culminare della felicità, che la vita stessa è, nell'unione estatica con Dio, al di sopra di ogni vita bene beatitudine.
Ida, attraverso lo stoicismo, specie quello tardo e alto di Seneca, la componente essenziale della concezione aristotelica, ossia l'autonomizzazione e immanentizzazione della felicità, riassume un ruolo primario, se pure venato di un qualche sapiente scetticismo. Persuaso che non si può insegnare la felicità, perché il volere non si impara, nelle Lettere a Lucilio Seneca propende per una via di raccolto ritiro, fuori della quale nessuna forma di felicità è per lui conseguibile: «non c'è cosa che giovi tanto quanto lo starsene quieti, parlando il meno possibile con gli altri, moltissimo con se stessi» (XVIII, 105, 6) Uno stile di esistenza che, peraltro, si fonderà con quello proprio del monachesimo che – dopo un periodo non ampio, ma essenziale in quanto contrassegnato dalla revolutio cristiana – fiorirà a partire dai Padri del deserto e da Agostino e da Benedetto.
È fuor di dubbio che il successivo percorso storico del problema è segnato costruttivamente in modo fondamentale da Tommaso: la modernità e la contemporaneità, in questo senso, sono costituite di decostruzioni o dissoluzioni o capovolgimenti della sua posizione; proprio perché in essa si traduce e conferma nel modo più ricco e concreto, ossia anche sul piano dell'etica e della politica, la concezione della natura umana come fondata nell'oggettività metafisica e nel principio di creazione. Soltanto Rosmini, in pienezza teoretica, si porrà controcorrente, avendo attraversato con assoluta e costruttiva attenzione storica e teoretica la modernità, sino al negativo culmine hegeliano, e perciò ritessendo grandiosamente tutte le fila già sconvolte e frammentate, sul fondamento della dispiegata verità metafisica della persona; riconoscendovi fra l'altro i princìpi della fondamentale preziosa e integrativa continuità teoretica fra la concezione ellenica e il pensiero cristiano.

Il naturale desiderio di Dio e dell'immortalità supportano le note tesi tommasiane nei termini del fine costitutivo della persona come il radicale dinamismo della sua aspirazione alla felicità e come sua culminazione nell'atto del suo conseguimento soprannaturale. A proposito della felicità eterna, sottolineo, anche come esempio eccelso della concretezza ed esistenzialità di quello che si presume essere l'astrattissimo Tommaso, una considerazione della Summa, che può sembrare quasi parentetica, e non so quanto sia valorizzata dai vari tomisti e neotomismi. Scrive Tommaso (I‑II, q. 4, a. 5 ad 4m): dopo la morte dell'uomo, «l’anima separata dal corpo è come frenata nel suo pieno impulso e tendenza verso la visione dell'essenza divina, perché desidera godere Dio in modo che questa fruizione si estenda (derivetur) al corpo per ridondanza, per quanto esso ne è capace». Altri saprà ben commentare il passo. Io mi limito, qui, a sottolineare che tale prospettiva si compie attraverso la concezione rosminiana dell'appagamento. Ma anzitutto trova un riscontro straordinario, a sua volta non so quanto ricordato, nel passo del Dialogo (n. 41)[2] nel quale Caterina da Siena scrive: «I beati hanno anche il desiderio di rientrare in possesso di quella loro dote che è il corpo; ma questo desiderio non li affligge per il fatto che attualmente ne sono privi, anzi ne godono per la certezza che esso sarà pienamente soddisfatto». E poco prima aveva scritto che i beati «godono di una particolare partecipazione con coloro che nel mondo amarono di amore singolare»; «non hanno perduto questo amore: anzi lo conservano, e reciprocamente ne partecipano più strettamente e con abbondanza». Una affermazione che trova un ulteriore straordinario riscontro in Rosmini[3].
Ma questo ricchissimo percorso nella modernità continua soltanto sotterraneamente: soprattutto nei grandi mistici, i quali in sostanza restano gli unici fruitori e talvolta anche teorizzatori della felicità in tutti i suoi gradi e in tutte le sue forme. In superficie cresce invece la tendenza a ridurre il problema in termini o edonistici o utilitaristici: dalla concezione di un Telesio che identifica il piacere con ciò che favorisce la conservazione di un organismo; di un Hobbes che lo riduce ai movimenti giovevoli al corpo; di un Hume che assume la felicità in termini di sistema dei piaceri. Kant incrina in modo radicalmente scettico, considerandolo il più "critico", l'assunzione del problema, in quanto lo arena nei termini della inattingibilità della felicità. In questo senso, sembra si limiti ad essere un sofisticato teorizzatore di quanto pensavano i moralisti dell'illuminismo, come un Chamfort, per il quale la felicità «è difficilissimo trovarla in noi e impossibile trovarla altrove». Perciò, successivamente, pulsioni utilitaristiche ed edonistiche, due facce del medesimo scetticismo, si sono scatenate fino ad occupare l'intero campo, a livello di pensiero e di sentire comune, sino all'oggi. Per cui l'oggi, là dove riconosca una qualche consistenza al problema stesso della felicità, non limitandosi a ridurlo totalmente a livello di prassi, si riconosce essenzialmente nella negativa concezione neopagana di Schopenhauer della felicità come assenza di dolore, e, insieme, in modo necessario e contraddittorio, in quella nietzscheana che la colloca nella momentanea «sensazione di accrescimento di potenza»: il visibilio degli accoppiamenti di sensazioni, entro i quali ciò che si considerava aberrazione diviene la normalità fino alla norma – da droghe come dalla qualsiasi «confricazione» sino a quelle che determinano assassinii ed omicidii – «oltreumani».
Ha comunque valore categoriale distinguere tra felicità che consegue a nostre intenzionalità, e felicità che consegue ad alcunché di estraneo a nostre intenzionalità e che perciò possiamo assumere, mediante volizioni, oppure possiamo non assumere o respingere. Quanto al secondo caso, mi riferisco in particolare ai cosiddetti beni di fortuna e di salute. Assumerli in positivo genera, comunque, forme e gradi che, per quanto rilevanti ed ampi, non esauriscono la capacità umana di felicità: potremo chiamarli godimento, soddisfazione, contentezza, allegria, spensieratezza, tranquillità, benessere ecc. Nel loro complesso si dimostrano imperniati su beni sensibili e dunque generanti piaceri – pertanto per sé, di durata e intensità incerta e indipendente dalla nostra volontà –, piuttosto che generanti felicità. La felicità è comunque necessariamente connessa con gli atti della nostra volontà libera: sino all'estremo della felicità piena vissuta nelle sofferenze più inaudite. Il che intanto ne esclude l'accezione negativa di assenza di dolore o anche semplicemente di dispiacere. E, al contrario, include tutte le forme appena determinate, e innumerevoli altre, in tutti i loro gradi, fino al massimo. In questo senso positivo, la felicità è la manifestazione del compimento, da parte della persona, del proprio fine; dunque in modo crescentemente stabile: dal conseguimento dei beni corporei, quanto meno quelli necessari al bene che la vita stessa è, a quello dei beni intellettivi e dei beni morali; e tutto ciò entro il Bene‑Vero‑Bello assoluto, che è la ragione ultima di tutti i fini positivi. Intelligenza e libertà, i sommi beni costitutivi della persona nella sua interezza, in quanto ordinano i propri atti al fine assoluto, cioè alla perfezione della persona medesima, attuano, nello stesso percorso di compimento, le diverse forme e gradi di ciò che nel loro insieme chiamiamo, in senso proprio, felicità, nella vita terrena, e, oltre essa, culminantemente, beatitudine. La consapevolezza del compimento, anche nel suo percorso, Rosmini la denomina appagamento.
L'ordinarsi al fine proprio è la strada regia – senza alternative – al compimento della persona e, di conseguenza, della felicità: il percorso della "porta stretta" che, solo, appaga l'universale desiderio di felicità, di conoscenza, di amore, di libertà, di immortalità. Nonché della condivisione e dunque della diffusione dei beni che ne conseguono, come perfezione della societarietà ontologica della persona. Da qui l'altra distinzione fondamentale: tra la felicità essenziale e i suoi surrogati; i quali, quanto più si determinano come piaceri, tanto più, nella loro inessenzialità e parzialità, possono generare soltanto forme di infelicità, sino a tutte le forme – in particolare quello occulte o comunque non palesi – di omicidio e di suicidio.

[1] M. A. Raschini, Specchi, Venezia 2001, pp. 178-179 (“Scritti”, vol. XXII).
[2] Cito dalla «versione in italiano corrente» di MN. A Raschini, Bologna 19913.
[3] Se ne veda ad esempio la lettera del 25 marzo 1845 in Epistolario Completo, vol. IX, Casale Monferrato 1892, pp. 259 ss.