lunedì 23 marzo 2009

La guerra moderna e la filosofia politica contemporanea



Il testo presentato di seguito venne elaborato più di dieci anni fa per una conferenza che poi non ebbe luogo. Recentemente, riordinando alcuni cassetti ho ritrovato il testo completo che, pur essendo antecedente ai noti avvenimenti bellici più recenti, conserva una sua complessiva validità e pertanto ho deciso di inserirlo senza sostanziali modifiche.

1. Premessa
"Se vuoi la pace, comprendi la guerra"
Sir B.H. Liddell Hart
Scopo di questa mia breve esposizione è quello di vedere quale è stato, nel tempo, l'atteggiamento del pensiero politico nei confronti di quel "fenomeno sociale complesso e multiforme"1 che è la guerra; si tratta di un argomento che per la sua vastità richiederebbe ben altro tempo a disposizione; pertanto, in questa sede, dopo una sintetica introduzione di carattere storico, mi limiterò, nei limiti delle mie conoscenze, a cercare di illustrare come alcuni fra i più significativi esponenti del pensiero politico contemporaneo, hanno giudicato, spiegato, giustificato, motivato, interpretato tale fenomeno o anche come lo hanno condannato, criticato, biasimato, censurato.
Per capire i motivi dell'interesse del pensiero politico nei confronti del fenomeno guerra, è opportuno richiamare quale è lo stretto collegamento che esiste tra politica e guerra.
La politica è quell'attività che ha come scopo primario la conquista e l'esercizio del potere; la guerra è forse la forma di esercizio del potere che, nei secoli, è stata adottata con maggiore frequenza.
L'uso dello strumento militare da parte di uno Stato o di una coalizione di Stati, per imporre la propria volontà alla controparte al fine di pervenire agli obiettivi politici desiderati, è stato molto diffuso nella storia e lo è tuttora.
È la politica quindi che determina quando è opportuno o necessario ricorrere all'uso delle armi, ma la guerra, a sua volta, con le sue esigenze e con i suoi risultati, ha influenza sulla politica2.
Questo rapporto di reciproca influenza è da sempre oggetto di attenzione da parte del pensiero politico, che lo ha studiato, esaminato, analizzato, sviscerandone tutti gli aspetti di carattere etico, funzionale, pragmatico.
I maggiori pensatori politici da Machiavelli a Kant, da Montesquieu a Hegel, da Marx a Schmitt, hanno affrontato nelle loro opere questo problema, tuttavia in questa sede, mi limiterò a ripercorrere sinteticamente le più significative posizioni espresse in tal senso negli ultimi due secoli, a partire cioè dagli sconvolgimenti politico-militari conseguenti la Rivoluzione Francese.

2. Introduzione di carattere storico

"II problema militare investe troppo la vita e l'avvenire non di una nazione,
ma del mondo, perché possa essere trascurato dall'opinione pubblica'"
Piero Pieri

È verso la fine del XVIII sec., con le grandi rivoluzioni, che la guerra cambia fisionomia, si trasforma in un fenomeno non più di esclusiva pertinenza dei Sovrani e dei loro gabinetti; non è più qualcosa provocata, come dice Condorcet “da usurpatori della sovranità nazionale per pretesi diritti ereditari”3, bensì diventa strumento di libertà e di democrazia, a disposizione del popolo sovrano.



La Rivoluzione americana prima e, subito dopo, la Rivoluzione francese avviano un'inarrestabile processo di cambiamento che coinvolge tutta la struttura militare, sia dal punto di vista politico, sia dal punto di vista tecnico-militare.
La guerra diviene [...] moderna, cioè doppiamente illimitata, nei suoi mezzi materiali e per i suoi fini politici”4. L'evento simbolo di questa evoluzione è rappresentato dalla battaglia di Valmy (20 settembre 1792), durante la quale, quello che un generale prussiano chiamava con disprezzo "l'esercito degli avvocati", costrinse alla ritirata le potenti armate austro-prussiane.
L'importanza che quell'evento avrebbe avuto per il futuro dell'Europa venne immediatamente colta da Goethe, presente sul campo di battaglia al seguito del duca di Weimar; egli scrisse: ”Qui, oggi, si apre un'era nuova nella storia del mondo e possiamo dire di aver assistito alla sua nascita”5.
La concezione della guerra subì una rivoluzione senza precedenti; si ebbe quella che Carlo Jean ha definito “democratizzazione della guerra”6; che prevedeva la partecipazione materiale ed emotiva delle masse agli obiettivi bellici. Veniva realizzato un nuovo sistema ordinativo: la "Nazione armata".
Prima di allora gli eserciti, costituiti in gran parte da mercenari, erano serviti ai sovrani anche per mantenere l'ordine interno; la guerra non era mai stata totale, in quanto, la distruzione dell'esercito in battaglia avrebbe potuto significare anche la perdita del potere interno.
Con la trasformazione dei sudditi in cittadini, il potere politico, espressione ormai della sovranità popolare, divenne in grado di armare senza timore i cittadini stessi e si poté così attuare la coscrizione obbligatoria.
La guerra si era così modificata in una lotta senza limiti, nella quale erano in gioco la vita ed il futuro delle nazioni “rendendo impossibile ogni altra guerra che non (fosse) una guerra mondiale di orrore inaudito”7; tali profetiche parole, scritte da Friedrich Engels poco dopo la guerra franco-prussiana del 1870-71, troveranno la loro tragica conferma nei due successivi conflitti mondiali che hanno sconvolto il XX secolo con 20 milioni di morti il primo e 50 milioni il secondo.



La seconda guerra mondiale si concludeva con l'impiego dell'arma nucleare e questo evento epocale apriva una nuova era storica nei rapporti fra guerra e politica. Tutto quanto era stato scritto e detto sull'argomento doveva essere rivisto alla luce delle conseguenze etiche, politiche, sociali e militari che la comparsa di questo strumento di distruzione totale comportava per la convivenza umana.
Tutta l'attenzione andò sempre più concentrandosi sulle possibili conseguenze di una "guerra nucleare" mentre si cercavano nuove strade per evitare "l'olocausto" e per garantire nel contempo la sicurezza: dissuasione, distensione, limitazione o riduzione bilanciata degli armamenti erano i nuovi strumenti di volta in volta messi in atto.
La presenza delle armi nucleari, se da una parte ha scongiurato, attraverso quello che è stato definito "l'equilibrio del terrore"8, lo scoppio di nuovi conflitti di dimensione mondiale, non ha impedito che, in aree periferiche, continuassero a verificarsi guerre locali, anche di rilevante intensità, dalla Corea al Medio Oriente, dal Vietnam all'Afghanistan.
A partire dal 1989, con il crollo del "muro di Berlino" e la fine della contrapposizione fra le superpotenze, si è sensibilmente attenuata la minaccia di un conflitto nucleare, mentre guerre locali più o meno limitate hanno continuato non solo ad essere presenti in diverse zone del pianeta, ma sono tornate ad insanguinare l'Europa che per cinquant'anni ne era stata immune.
Il pensiero politico-filosofico, da parte sua, nel corso di questi due secoli, ha affrontato tali mutamenti evolutivi, via via verificatisi nell'ambito del fenomeno guerra, con un ampio e variegato spettro di posizioni che spaziavano dal consenso apologetico, al pacifismo più intransigente.
Queste posizioni diversificate, si ritrovano sovente all'interno di una stessa famiglia ideologica; pertanto, anziché procedere nella successiva analisi utilizzando tale strumento, ho ritenuto più funzionale - rifacendomi, nella sostanza, ad una classificazione usata da Norberto Bobbio per la sua "critica delle giustificazioni' della guerra9 - raggruppare tali posizioni in tre filoni, trasversali rispetto alle famiglie stesse. Le denominazioni usate, però, essendo diverso lo scopo e le finalità dell'esposizione, sono differenti e si riferiscono alla visione della guerra da parte dei vari esponenti del pensiero politico contemporaneo presi in esame, e, pur non essendo del tutto originali dovrebbero essere, per quanto mi risulta, inedite; esse sono:
-apologetico-idealista;
-umanistico-pacifista;
-pragmatico-realista.
L'uso dei due termini vuole indicare che all'interno di uno stesso filone si possono trovare posizioni abbastanza differenziate, anche se, sostanzialmente, riconducibili nei parametri della classificazione.

3. Filone apologetico-idealista
"....la guerra è divina in sé, perché è una legge del mondo"
Joseph De Maistre

In questo primo filone sono stati inclusi quei pensatori che, sia pure con motivazioni diverse, hanno esaltato la guerra, ne hanno decantato la preziosa funzione etica, sociale e di progresso, ne hanno descritto le virtù ordinatrici; in questa categoria può essere compresa anche l'esaltazione della guerra a fini religiosi o "guerra santa" (compresa la Jihad islamica).
Le radici di tale concezione della guerra sono antichissime; le troviamo già nella Bibbia e nei maggiori filosofi dell'antichità: da Eraclito che la definisce "madre di tutte le cose" a Platone e ad Aristotele.
Tale visione è largamente diffusa in tutto il pensiero medievale ed è presente in pensatori quali Bossuet, Leibniz con la sua "Teodicea", etc..
Uno degli esponenti più significativi di questo filone di pensiero è senz'altro il filosofo savoiardo Joseph De Maistre che vede nella guerra uno strumento di espiazione, “un castigo inflitto da Dio alle nazioni colpevoli”10, ma le attribuisce anche una funzione salvifica, purificatrice, provvidenziale.
Per De Maistre “la storia dimostra disgraziatamente che la guerra, in un certo senso, è la condizione abituale del genere umano; vale a dire che il sangue umano deve scorrere senza interruzione sul globo, qua o là, e che la pace, per ogni nazione, non è che una tregua”11 ; ed inoltre egli ne minimizza le tragiche conseguenze, mentre ne esalta le finalità salvifiche ed innovatrici: “È lecito dubitare, del resto, che questa distruzione violenta sia, in generale, un male cosi grande come si crede; [...] quando l'animo umano ha perduto la sua energia a causa della mollezza, dell'incredulità e dei vizi cancrenosi che seguono l'eccesso di civilizzazione, essa può essere ritemprata solo nel sangue...” e più avanti “ ...i veri frutti della natura umana, le arti, le scienze, le grandi imprese, le alte concezioni dipendono soprattutto dallo stato di guerra. Si sa che le nazioni non arrivano mai al più alto livello di grandezza di cui sono capaci, se non dopo guerre lunghe e sanguinose.[...] si direbbe che il sangue è il concime di quella pianta che si chiama genio”12.



Un altro grande pensatore che appartiene a questo filone di pensiero è il massimo teorico dell'idealismo tedesco, Friedrich Hegel, per il quale la guerra è il movimento necessario per aprire le nuove vie della storia, l'apoteosi, il punto culminante dello Stato, quello nel quale viene raggiunta la massima coscienza del potere, essa pertanto “non deve considerarsi come male assoluto e come accidentalità semplicemente esteriore..."ma"...ha il più alto significato in ciò che, per suo mezzo, la salute etica dei popoli è conservata, come il movimento dei venti preserva il mare dalla putrefazione, nella quale lo ridurrebbe una quiete durevole13.


Per Hegel lo Stato deve prodigarsi per dimostrare il suo primato nel consesso mondiale, questo non deve necessariamente avvenire attraverso la guerra, ma può anche realizzarsi attraverso la cultura, l'arte, il lavoro, lo sviluppo economico, purché tutto ciò avvenga comunque sotto l'egida dello Stato; se ciò non si verifica con questi mezzi, il risultato deve in ogni modo essere perseguito, anche con mezzi violenti, ed in questo caso la militarizzazione dello Stato e la guerra diventano gli strumenti più idonei14.
Una posizione abbastanza simile a quella di Hegel, anche se meno enfatica, viene espressa circa mezzo secolo dopo da un altro autorevole pensatore tedesco Heinrich Treitschke, il quale afferma che "lo Stato non è un'accademia di belle arti; quando trascura la sua forza a favore delle aspirazioni ideali dell'umanità, esso nega la propria essenza e va alla rovina"; pertanto la lotta e la competizione devono rientrare fra gli obiettivi primati della politica. In una tale prospettiva anche la guerra assume un ruolo primario e il potere dello Stato è visto come "sovranità guerriera".
Per Trietschke il "pacifismo" è un controsenso, qualcosa che va contro il progresso della storia. Pur non auspicando guerre fatte senza valide motivazioni e non negando neppure l'opportunità di ricercare una progressiva riduzione delle guerre, egli ritiene che un popolo che non sia in grado di affrontare con onore questa terribile prova è un popolo destinato all'estinzione. A differenza di Hegel, Trietschke non ritiene che il popolo tedesco sia l'unico depositario della potenza e della dignità universale e considera giusto che tutti gli stati mirino allo sviluppo della loro potenza15.
Tra coloro che hanno osannato la guerra ed i suoi benèfici effetti troviamo anche il pensatore socialista francese Pierre-Joseph Proudhon.
Nel 1861 pochi anni prima di morire egli pubblica "La guerre et la paix", un'opera controversa e poco diffusa, difficilmente assimilabile alla parte più significativa del suo pensiero politico.



Proudhon, contrariamente a quanti vedono come cosa degradante il fatto che la specie umana sia l'unica che pratica la guerra, giudica ciò positivamente:
"Come non vedere che è proprio nella guerra il segno della nostra grandezza? […] Filantropi, voi dite che si deve abolire la guerra: state attenti, correte il rischio di degradare il genere umano".16
In questa sua esasperata esaltazione non esiste neppure una distinzione fra guerra giusta e guerra ingiusta:"La guerra, per la sua natura […] non è più ingiusta da una parte e meno ingiusta dall'altra, ma è, tanto dall'una quanto dall'altra parte dei combattenti necessariamente giusta, virtuosa, morale, santa, […] come potrebbe, la guerra, essere ingiusta dal momento che essa è semplicemente un atto di ordine giuridico, una specie di giudizio di Dio in grande?”17.
Vi troviamo anche una specie di legittimazione del diritto del più forte ed una implicita condivisione del principio hegeliano secondo cui uno Stato più è forte, più è in grado di imporre la sua volontà: "L'uomo non lotta soltanto contro la natura, lotta anche contro l'uomo e questa è una cosa inevitabile ed è un bene: forza, bravura, coraggio, eroismo, sacrificio dei propri beni, della libertà, della vita, della famiglia, ecco a quali sublimi virtù ci chiama la guerra"18.
Un altro esaltato apologista della guerra, le cui posizioni sono molto vicine a quelle di Proudhon, è l'ambiguo e discusso socialista francese George Sorel, per il quale la guerra rappresenta un fortunato beneficio per la società.
In Italia una visione della guerra analoga a quella di Proudhon viene espressa dal più importante scrittore italiano di cose militari dell'ottocento Nicola Marselli, generale, storico, filosofo, uomo politico e di governo (fu Segretario Generale del Ministero della Guerra dal 1884 al 1887 con il Ministro Ricotti Magnani)19 la cui opera fondamentale "La guerra e la sua storia" pubblicata nel 1875 ebbe un'ampia diffusione anche fuori d'Italia20. Le sue opere hanno avuto parole di apprezzamento da parte di B. Croce, e di G. Gentile; quest'ultimo definisce il Marselli "(uno) degli spiriti più concentrati nella riflessione speculativa che ci fossero in Italia al suo tempo”21, mentre Federico Chabod cita ripetutamente la sua intensa attività di scrittore e uomo politico22.



Il Marselli sostiene che la storia ha finora dimostrato che la guerra è stata ed è ancora, un fattore di civiltà e di progresso, infatti "La Guerra ci si è dimostrata come un istrumento necessario della Civiltà, un fenomeno dell'umana attività, un fattore benanche di progresso; ond'ella non può andare assolutamente posta fuori della Civiltà"23.
Sulla scia di Hegel è invece la visione della guerra che traspare dal pensiero di uno dei massimi filosofi italiani del novecento, Giovanni Gentile, per il quale, come afferma A. Zanfarino: "la guerra [...] è un fatto inevitabile, anche se essa può combattersi non solo con il fragore delle armi, ma anche con "punture di spillo"24.
All'epoca della grande guerra egli è estremamente critico nei confronti del pacifismo, che definisce "privo di senso storico, ossia di vero e proprio senso della realtà”, considera velleitari i progetti di pace perpetua e taccia di sterile "propaganda umanitaria" gli sforzi di coloro che si battono per evitare che le controversie internazionali vengano risolte con il ricorso all'uso delle armi.
Anche il dilemma su 'guerra giusta' o 'guerra ingiusta' non viene affrontato ed egli si limita ad affermare che "la guerra è santa perché è necessaria".
Per Gentile tuttavia la guerra non deve trasformarsi in una esaltazione estetica del sacrificio, in una santificazione dell'eroismo :" inneggiare alla guerra per l'ammirazione che desta sempre lo spettacolo d'ogni forza straordinaria, che si pompeggi dei suoi effetti, è cinismo ignobile d'esteta grossolano". In questa affermazione sembra trapelare un neppur troppo velato riferimento a Gabriele D'Annunzio ed alla sua visione della guerra come catarsi dell'individuo o ancora come "la più feconda creatrice di bellezza e di virtù apparsa sulla terra".
La vera ed intima essenza della guerra per Gentile può essere, quindi, compresa solo se ci si rifiuta di ascoltare le inutili prediche sugli "orrori della guerra" e se si evita di lasciarsi affascinare dalle altrettanto pericolose glorificazioni della sua "terribile bellezza"25
Sempre nella prima metà del novecento un altro noto e discusso pensatore tedesco Carl Schmitt, si esprime positivamente nei confronti della guerra e ritiene che, come osserva Zanfarino, essa sia sempre, "una eventualità non eliminabile dal discorso politico". L'idea di poter affrontare i dilemmi della politica dichiarandosi neutrali è illusoria, in quanto prima o poi sarà necessario prendere posizione a favore di una o dell'altra parte, e quindi rientrare nella logica amico-nemico.




Anche il pacifismo cosmopolitico per Schmitt è contraddittorio, in quanto, citando sempre Zanfarino "se [...] anziché proporsi come semplice perorazione moralistica, come vacua speranza di anime belle, diventasse lotta consapevole e intransigente alla guerra, i pacifisti sarebbero costretti a scendere in campo contro i non pacifisti”26.
Un diverso tipo di esaltazione della guerra infine è quello che la vede come mezzo più idoneo per esportare le rivoluzioni e rendere partecipi delle conquiste del progresso e della democrazia i popoli vicini. Il primo a professare questa nuova concezione della guerra fu un pensatore tedesco, Anacharsis Cloots, trasferitosi in Francia all'epoca della rivoluzione del 1789, il quale si definiva "barone in Prussia e cittadino nella Repubblica francese" e sosteneva che la Francia doveva usare la guerra, non per limitare la libertà degli altri popoli, ma doveva provocarla per rendere partecipi i popoli vicini delle libertà che la Repubblica francese aveva già conquistato.
Nei confronti dei vari progetti di pace perpetua27 allora circolanti si esprimeva in questi termini "C'è poco da dire che la pace perpetua sarà il risultato della legge universale .... La guerra è necessaria di tanto in tanto, poiché il genere umano ha bisogno di sanguinare come il corpo degli uomini28
Questa visione della guerra come mezzo per esportare la rivoluzione, sarà alla base, negli anni successivi, della politica estera francese, ma il suo artefice non avrà l'opportunità di vederne i risultati, in quanto verrà ghigliottinato, all'epoca del "Terrore"29.

4. Filone umanistico-pacifìsta
"sono stanco e nauseato della guerra. La sua gloria
è affatto insensata. La guerra è inferno"
Gen. W. T. Sherman

Questo secondo filone include tutti quei pensatori che con le loro opere, si sono opposti alla guerra deprecandone gli orrori, che l'hanno respinta con disprezzo o che l'hanno condannata con fermezza, considerandola il male peggiore dell'umanità.
Le radici di questo filone si possono far risalire alla predicazione evangelica, al Discorso della Montagna, ai primi filosofi cristiani, ad Erasmo da Rotterdam, ai primi progetti di pace perpetua di Emeric Crucé e dell'abate Saint-Pierre fino a tutto il pensiero illuminista da Voltaire a Rousseau, a Condorcet.
Questa volontà di contrastare la guerra, di ripudiare la violenza nella risoluzione delle controversie internazionali ha assunto nel tempo forme diverse e differenziate a seconda delle motivazioni religiose, psicologiche, umanitarie, ideologiche, che ne erano alla base, o dei metodi utilizzati e delle direzioni seguite per cercare di raggiungere i risultati auspicati anche se, in ogni caso, l'obiettivo è sempre stato quello di salvaguardare, come scrive Zanfarino "il fondamentale diritto degli uomini alla pace.[diritto] che invece è il più trascurato e il meno tutelato"30.
II pensatore più autorevole, che ha dato un contributo fondamentale alle teorie pacifiste è Immanuel Kant, che, nel 1795, con "Per la pace perpetua-Progetto filosofico" ha realizzato quella che viene considerata " la più celebre e significativa opera del pacifismo giuridico"31.
Tutta l'opera politica di Kant, nel suo complesso, tende a porre, come rileva ancora Zanfarino, "il valore della pace come criterio costitutivo ed esplicativo del destino storico dell'umanità”32anche se in certi casi troviamo espressioni non proprio negative nei confronti della guerra, quali: "Una lunga pace fa predominare il desiderio del lucro, la bassezza d'animo e l'effeminatezza. La guerra invece ha qualcosa di grande in se stessa, e solleva l'anima del popolo tanto più in alto quanto più grandi siano stati i pericoli e quanto più grande sia stato il bisogno di coraggio' e ancora "essa sembra avere le sue radici nella natura umana, tant'è vero che viene considerata come un atto di nobiltà a compiere il quale ci sentiamo spinti dal desiderio della gloria senza alcun movente di interesse”33.
Con "Per la pace perpetua-Progetto filosofico" Kant produce un importante sforzo razionale per cercare di dimostrare che la guerra non è la sola strada percorribile per risolvere i conflitti di interessi fra gli Stati, e fissa alcuni principi innovativi, che conservano tuttora una certa rilevanza.



Ad essi si ispirarono gli estensori del Patto per la Società delle Nazioni, anche se in quell'occasione, non vennero presi in considerazione proprio quelli che erano i due punti più originali e innovativi del progetto: l'articolo preliminare n.3: "Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono col tempo interamente scomparire”34 e il primo articolo definitivo "La costituzione di ogni Stato deve essere repubblicana” in quanto, poiché il governo repubblicano prevede la partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica, "se [...] è richiesto l'assenso dei cittadini per decidere se la guerra debba o non debba essere fatta, nulla di più naturale pensare che dovendo far ricadere sopra di sé tutte le calamità della guerra [...] essi riflettano a lungo prima di iniziare un cosi cattivo gioco"35.
Con l'idea di abolire gli eserciti permanenti Kant lancia una proposta provocatoria per l'epoca e indica la via del disarmo come una delle più idonee per andare incontro alle esigenze della pace.
Proponendo invece di interpellare i cittadini sull'opportunità o meno di fare la guerra, egli si pone in linea con uno dei principi fondamentali della filosofia politica umanistica, secondo il quale, come osserva sempre Zanfarino "nei problemi della pace e della guerra il popolo avrebbe il più diretto interesse ad essere consultato e a esercitare le sue legittime funzioni”36.
Un altro grande pensatore rigorosamente polemico e severamente critico nei confronti della guerra è il francese Claude-Henry De Saint-Simon padre del positivismo.
Questa sua decisa avversione ha origine essenzialmente in una reazione emotiva agli orrori delle guerre del Primo Impero, cui fa seguito una forte ostilità nei confronti della classe militare; potremmo dire che il suo non è tanto pacifismo quanto antimilitarismo, nel senso che egli ritiene lo spirito militare pericoloso e antitetico a quella organizzazione industriale che egli considera la via obbligata per il progresso della società. In una moderna società, è necessario tendere alla pace ad alla cooperazione fra i popoli, riducendo i motivi di conflitto. Per Saint-Simon "le guerre nuocciono a tutta la specie umana, anche ai popoli vincitori”, e le ambizioni imperialistiche e di potenza delle nazioni europee sono da rinnegare, mentre è necessario che la vita internazionale ricerchi "i sentimenti filantropici e dell'europeismo (a discapito dei) sentimenti nazionali”37.
Una posizione analogamente critica nei confronti del sistema militare e della rettorica del patriottismo, viene espressa dal filosofo inglese Thomas Hill Green, secondo il quale, come osserva Zanfarino: "se lo stato è militarizzato, se la filosofia pubblica dominante è quella della guerra, i diritti umani si affievoliscono e sono confiscati”38 .
Nel corso del XIX secolo il pensiero politico non ebbe altri esponenti di rilievo che assumessero ferme posizioni di tipo pacifista; coloro che non si schieravano apertamente a favore della guerra, assumevano comunque posizioni più sfumate, e pertanto, ho ritenuto più corretto inserirli nel successivo filone "pragmatico-realista".
Solo verso la fine del secolo in seno al pensiero politico di sinistra, cominciò ad emergere una corrente pacifista dovuta prevalentemente ai mutamenti di linea politica emersi dalla II Internazionale socialista; tale posizione si contrapponeva a quella dominante, che, nei confronti dei rapporti fra politica e guerra, era di prevalente attenzione ed interesse, a causa degli stretti legami esistenti fra guerra e rivoluzione sociale.
Il confronto fra queste posizioni, oggetto di ampi e vivaci dibattiti, andò facendosi via via più aspro con l'avvicinarsi del primo conflitto mondiale, portando il movimento socialista sull'orlo di una insanabile frattura.
All'interno del movimento pacifista un ruolo rilevante venne assunto dal francese Jean Jaurès, il quale pagherà con la vita la sua opposizione alla guerra, e dalla tedesca Rosa Luxemburg, che fu sempre contraria alla guerra che considerava una clamorosa "sconfìtta del socialismo e della democrazia,[...] [che] ha annientato i risultati di quarantanni di lavoro del socialismo europeo”.
La posizione politica della Luxemburg era sinteticamente espressa nella parola d'ordine "guerra alla guerra", ma tale posizione non era condivisa da Lenin che, al contrario riteneva mistificante "la propaganda astratta della pace"39.
Nel periodo fra le due guerre il pensiero politico non produce niente di significativo, nulla che vada oltre le generiche posizioni di condanna dei mali e delle atrocità della guerra.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, con il profilarsi della minaccia di una guerra termo-nucleare", le posizioni pacifiste hanno ripreso un notevole vigore e il dibattito sulla indispensabilità della "pace" ha assunto una straordinaria vitalità, coinvolgendo tutte le correnti di pensiero, e producendo ipotesi e teorie la cui vastità, va oltre i limiti di questo elaborato.
Un rapido cenno tuttavia merita, visto che si tratta di un pensatore italiano, la teoria della "pacifismo cosmopolitico" di Norberto Bobbio. Egli sostiene che "la guerra (è) una via bloccata,...(e ciò) può voler dire due cose diverse:..a).la guerra è un'istituzione estenuata che ha ormai fatto il suo tempo, ed è destinata a scomparire; b) la guerra è un'istituzione sconveniente, o ingiusta, o empia, che deve essere eliminata."40 .
Bobbio rifacendosi al progetto kantiano di "pace perpetua" aspira ad un "vero e proprio progetto di superamento della sovranità degli Stati e di costituzione di uno Stato mondiale"41, e la strada da seguire è quella già intrapresa con la Società delle Nazioni e con l'Organizzaizione delle Nazioni Unite, che considera, rifacendosi ad Hobbes, un vero e proprio "pactum societatis", al quale non avrebbe fatto seguito il necessario "pactum subjectionis"42.

Ed è in questo quadro che va vista la sua discussa presa di posizione nei confronti della "Guerra del Golfo", da lui dichiarata "giusta perché fondata su un principio fondamentale del diritto internazionale che è quello che giustifica la legittima difesa"43, tesi vivacemente contestata da più parti, ed in particolare da Danilo Zolo che sostiene, in polemica con Bobbio, "che la teoria della guerra giusta e più in generale l'etica nelle relazioni internazionali non erano in grado di offrire alcuna giustificazione di quella guerra e in particolare del comportamento delle Nazioni Unite”44.


4. Filone pragmatico-realista

"...la vittoria del socialismo in un solo paese non esclude
affatto e di colpo tutte le guerre, anzi le presuppone"
Lenin
"L'essere preparati alla guerra....è la migliore salvaguardia per la pace"
Gen. H. von Moltke

Per questo terzo ed ultimo filone, ho preso in esame alcuni significativi pensatori politici, che, nelle loro opere, hanno espresso, nei confronti del fenomeno guerra, posizioni meno estreme delle precedenti fin qui esaminate.
Le origini di questo filone possono essere ricercate nella teoria del "justum bellum" di Sant'Agostino e San Tommaso, in Machiavelli, secondo il quale una guerra è giusta quando è necessaria, in Grozio, in Spinoza, in Montesquieu, ed in molti altri ancora.
Come indica la denominazione, sono stati presi in considerazione sia quegli esponenti del pensiero politico che vedono nella guerra uno strumento per conseguire pragmaticamente fini politici e obiettivi rivoluzionali, sia quelli che ritengono che a causa della conflittualità esistente nelle relazioni internazionali, la guerra, anche se non auspicabile, resta una delle opzioni disponibili alla quale bisogna realisticamente prepararsi per non farsi sorprendere (si vis pacem, para bellum).
Alla prima categoria appartengono tutti quei pensatori che hanno visto nella guerra lo strumento necessario e indispensabile per arrivare alla libertà ed all'indipendenza dal giogo straniero (Mazzini, Pisacane, De Cristoforis), oppure la sola via percorribile per trasformare il regime borghese nella società socialista o comunista (Marx, Engels, Lenin, Mao).
In nessuno di questi pensatori tuttavia troviamo anche la visione apologetica e nazionalistica, in senso imperialista, che era presente nel pensiero di Anacharsis Cloots, visto in precedenza, e che ho ritenuto più corretto inserire nel primo filone.
Nei tre pensatori del Risorgimento sopracitati l'interesse per la guerra punta a creare gli strumenti necessari per la riscossa nazionale, in considerazione che solo con le armi in pugno sarà possibile conquistare la libertà, l'indipendenza e la democrazia; ma, mentre in Giuseppe Mazzini l'apporto di pensiero è sostanzialmente politico, se si esclude un interessante spunto relativo alla "guerra per bande", in Carlo Pisacane e Carlo De Cristoforis l'attenzione per i problemi della guerra si trasforma in significativo contributo tecnico con la produzione di opere di rilevante interesse, che li fanno annoverare fra i più autorevoli scrittori italiani di cose militari dell'ottocento45. Non solo, ma nell'ottica mazziniana del "pensiero ed azione", entrambi sacrificheranno la giovane vita per i loro ideali, il primo a 39 anni a capo della sfortunata spedizione di Sapri, ed il secondo a 35 anni alla testa di una compagnia garibaldina sul campo di battaglia di San Fermo presso Varese, durante la II guerra d'Indipendenza.



Prima di passare all'esame della parte marxista rivoluzionaria di questo sottogruppo è opportuno fare una parentesi ed introdurre quello che viene unanimemente ritenuto il più originale ed autorevole teorico dell'indissolubile legame fra politica e guerra: Carl von Clausewitz.




Includere il Clausewitz a questo punto dell'esposizione, anziché all'inizio fra gli apologisti, può essere discutibile, in quanto da molte parti egli è visto, ancora oggi, come il padre del militarismo prussiano, ed anche come l'ispiratore, assieme ad Hegel e Schmitt, della insensata strategia militare nazista.
Non condividendo a pieno tale punto di vista e ritenendo invece che egli possa essere considerato per la guerra ciò che Machiavelli è stato per la politica46, ho preferito inserirlo a questo punto.
Come osserva Loris Rizzi, egli "è il primo a sottolineare la netta subordinazione della guerra alla politica: la guerra - egli scrive - non è altro che «una specie di scrittura o linguaggio» per esprimere il pensiero politico".47
II grande merito del Clausewitz sta nell'aver effettuato, soprattutto con il "Vom Kriege", un'analisi concreta, nitida, razionale del fenomeno guerra e nell'averne studiato con un preciso approccio filosofico, di matrice hegeliana, i principi generali, le strette connessioni con la politica e gli aspetti antropologici e psicologici.



Secondo Gaston Bouthoul egli è il più grande stratega del XIX sec. e merita di essere annoverato, assieme a Marx e a Darwin, fra i massimi geni di quel secolo48.
La sua opera è stata oggetto, nel tempo, di interpretazioni discrepanti e di letture differenti e in tempi recenti è stata rivisitata alla luce della minaccia di un conflitto termonucleare, anche nel tentativo di chiarire se poteva ancora oggi considerarsi valida la sua formula secondo cui la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi.
Fatta questa doverosa parentesi, necessaria per poter procedere nell'esposizione, torniamo a quel gruppo di pensatori di origine marxista rivoluzionaria citati in precedenza, per vedere quale è stato il loro approccio nei confronti del fenomeno guerra.
In tutti loro, a partire dallo stesso Marx, sono presenti con insistenza i problemi della guerra ed i suoi rapporti con la politica, presenza motivata dalla stretta relazione fra la guerra e la rivoluzione sociale.
Per Marx, in particolare, è solo attraverso la guerra che si potrà ottenere il collasso del sistema capitalistico internazionale. In questo quadro va visto anche il grande interesse dimostrato da lui ed anche da Engels, per l'opera teorica di Clausewitz49; essi hanno delineato “la loro visione della guerra e dei conflitti armati in modo che appare [...] il naturale sviluppo, in senso materialistico e dialettico, del pensiero clausewitziano”50.
Analoghe sono le posizioni espresse più tardi da V. I. Lenin, che è stato definito come il migliore allievo del Clausewitz, le cui teorie ha utilizzato ai fini della lotta politica. Secondo Cesare Milanese "L'intero leninismo può essere ridotto all'operazione di traduzione delle leggi della guerra in quelle della politica: è per questo che Lenin incitava i militanti del suo partito a leggere Clausewitz''51



Tuttavia Lenin non intende la guerra solo come mezzo da utilizzarsi per ottenere obiettivi di politica estera, cioè come guerra fra gli Stati, ma soprattutto come guerra per liberare gli sfruttati dagli sfruttatori e quindi come guerra di classe.
Per quanto riguarda Mao Zedong, pur ispirandosi essenzialmente al grande studioso di arte militare cinese del V sec. a.C.: Sun Tsu, alcune sue affermazioni risentono chiaramente dell'invito leniniano a studiare Clausewitz. Egli infatti, riferendosi al rapporto fra guerra e politica afferma "la guerra è la continuazione della politica. In questo senso, la guerra è politica; e la guerra è in se stessa un atto politico; sin dai tempi più antichi, non vi è mai stata una guerra che non avesse un carattere politico […]. Ma la guerra ha sue particolari caratteristiche e in questo senso non può essere identificata con la politica in generale. La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Quando la politica raggiunge un certo stadio del suo sviluppo che non può essere superato con i mezzi abituali, scoppia la guerra per spazzare via gli ostacoli che impediscono il cammino […]. Quando l'ostacolo è rimosso e lo scopo politico raggiunto, la guerra ha fine, ma se l'ostacolo non è completamente spazzato via, la guerra dovrà continuare fino a quando lo scopo sia completamente raggiunto.[...] Sì può perciò dire che la politica è guerra senza spargimento di sangue e che la guerra è politica con spargimento di sangue”52.
Nel contempo ribadisce il concetto di Lenin sulla guerra, che egli definisce "una delle forme più alte di lotta per il regolamento delle contraddizioni fra le classi, le Nazioni, gli Stati, o i gruppi politici pervenuti ad un certo stadio di sviluppo dopo l'inizio della società di classi"53.
Pertanto secondo Mao il superamento definitivo delle differenze di classe, che verrà raggiunto con la vittoria finale del comunismo, avrà come conseguenza la scomparsa del fenomeno guerra.
Per concludere questo terzo filone dobbiamo ora esaminare il secondo sottogruppo, quello cioè di coloro che pur auspicando la pace, in certi casi ritengono giustificato il ricorso alle armi se questo avviene per una "giusta causa" o comunque per motivazioni ritenute irrinunciabili.
Nel pensiero politico dell'ottocento questa fu una posizione abbastanza diffusa; in questa sede vedremo solo le posizioni di alcuni dei pensatori più significativi.



Il grande filosofo liberale Benjamin Constant nei confronti della guerra si pronuncia in questi termini "Parecchi scrittori, traviati a esagerazioni lodevoli dal loro stesso amore dell'umanità, non hanno altrimenti considerato la guerra che sotto il suo aspetto luttuoso. Io non ho difficoltà a riconoscerne anche i vantaggi. Non è vero anzitutto che la guerra sia sempre un male." e più avanti continua " ma tutti questi vantaggi della guerra presuppongono una condizione indispensabile, ed è che la guerra stessa sia la naturale conseguenza della situazione e dello spirito nazionale dei popoli. [...] Un popolo che senza essere chiamato alla difesa dei suoi focolari, è indotto [...] a spedizioni belliche e a conquiste può tuttavia accompagnare al suo spirito aggressivo semplicità di costumi, [...] lealtà, fedeltà ai patti, rispetto per il nemico valoroso e la pietà stessa e la tolleranza per il nemico soggiogato", ma detto questo egli si chiede se questi sentimenti siano ancora presenti nell'epoca in cui scrive, ed il timore di un responso negativo a tale quesito gli fa ritenere che "per spingere oggi giorno le nazioni alla guerra e alle conquiste (sarebbe necessario) sconvolgere la loro situazione , il che non potrà farsi mai senza affliggerle di molte sventure, e snaturare il loro carattere, il che non potrà mai farsi senza indurle a molti vizi”.54 
Constant si pone qui uno dei dubbi che la guerra "totale" ha sollevato in molti pensatori, cioè la necessità che esista fra le parti in guerra un qualche elemento comune, un accordo sulle basi del diritto e della fede, che le porti al rispetto di comuni regole di comportamento, che potremmo definire come "morale bellica". Timore più che fondato visti i massacri indiscriminati di vittime inermi che avrebbero caratterizzato le guerre del XX secolo, che egli sembra quasi aver previsto con queste profetiche parole riportate nei suoi "Diari intimi": "Si è talmente colpiti di pietà e di orrore dalle riflessioni suggeriteci da simili crudeltà, che ci si sente impazienti di arrivare al più presto alla fine di questa nostra vita per sottrarci alla cattiveria degli uomini55.
Egli inoltre ottimisticamente pronostica la progressiva sostituzione della guerra con il commercio "La guerra è impulso il commercio è calcolo. Ma per ciò stesso deve venire un'epoca in cui il commercio sostituisce la guerra. Noi siamo arrivati a questa epoca56.
Un altro importante pensatore dell'ottocento Alexis de Tocqueville esprime posizioni abbastanza simili a quelle di Constant. Egli pur auspicando che le guerre si facciano "più rare e meno vive via via che le condizioni si faranno più eguali" considera tuttavia la guerra "un accidente cui tutti i popoli sono soggetti, i popoli democratici come tutti gli altri. Qualunque sia il gusto che queste nazioni hanno per la pace, bisogna che esse siano pronte a respingere la guerra o, in altri termini che abbiano un esercito"57. Se da una parte le guerre tendono a diradarsi dall'altra i conflitti tendono sempre più a coinvolgere un numero crescente di stati:"Le guerre divengono dunque più rare, ma quando nascono, esse hanno un campo più vasto58.
Posizioni analoghe, sia per quanto riguarda il problema della inevitabilità o meno della guerra ed i criteri di giustificazione, sia per quanto riguarda l'ottimistica previsione secondo cui il commercio, lo sviluppo economico ed industriale sarebbero destinati a rendere obsoleta la guerra, vengono espresse da altri autorevoli pensatori dell'ottocento quali Comte, Spenser, Start Mill, etc..
Per quanto riguarda tempi più recenti merita di essere richiamata la posizione senz'altro originale e per certi aspetti eretica, espressa nella sua ultima opera da Danilo Zolo che auspica un "pacifismo debole', secondo il quale "la guerra non possa essere né vietata, né 'negata', ma debba essere invece socialmente 'integrata', assieme all'aggressività e al conflitto cui è antropologicamente connessa", anche per sfruttare i benefici dei "rituali di pacificazione", che immancabilmente seguono ogni conflitto.
Si tratta di una particolare versione del "realismo" che pur guardando "con molta diffidenza alle giustificazioni morali della guerra" tuttavia "non condanna la guerra da un punto di vista morale: considera la guerra come un fenomeno così distruttivo e così incontrollabile da essere eticamente incommensurabile".
Egli ritiene inefficaci altri tipi di pacifismo quali il pacifismo cosmopolitico o il pacifismo giuridico in quanto ritiene che :"la conflittualità non possa essere repressa o cancellata, ma debba essere pazientemente incanalata, arginata e nei casi più fortunati, imbrigliata"59

6. Conclusioni
"La pace assoluta e definitiva appare oggi alla fredda
mentalità dell'uomo moderno come semplice sogno"
Nicola Abbagliano

Quanto fin qui esposto ha messo in luce come all'evoluzione del fenomeno guerra verificatosi nel corso degli ultimi duecento anni abbia corrisposto, da parte del pensiero politico, lo svilupparsi di autorevoli opinioni diversificate che via via sono andate modificandosi, scomponendosi e ricomponendosi essenzialmente attorno all'eterna contrapposizione fra pace e guerra, assumendo sia atteggiamenti estremistici, sia posizioni più equilibrate o, a seconda dei punti di vista, più farisaiche.
Dopo la seconda guerra mondiale e con il profilarsi della minaccia di un conflitto nucleare e del rischio di una distruzione totale del pianeta, il pensiero politico, se da una parte ha pressoché smesso di produrre opinioni che in qualche modo assumessero una posizione apologetica nei confronti della guerra, o che le attribuissero una funzione salvifica o catarsica, dall'altra ha generato una vasta ed eterogenea collezione di opinioni pacifiste che hanno sbilanciato, a senso unico, il dibattito sui problemi del rapporto fra guerra e politica. Posizioni che inducono molti a ritenere che la pace, da fine desiderabile, possa trasformarsi in realtà tangibile per il solo fatto che tanti la invocano con grande passione, creando un convincimento che può condurre verso dimensioni irrazionali o utopistiche.
Dall'altro lato però permane la questione se sia ancora valida la tesi che individua il ricorso alla guerra come "estrema ratio" da utilizzare nei rapporti internazionali.
L'incapacità di creare validi organismi sovranazionali in grado di salvaguardare la pace e di comporre i conflitti d'interesse fra gli stati, dimostrata fino ad oggi dalla comunità internazionale, non fa ben sperare per il futuro. I singoli stati continuano ad anteporre i propri interessi vitali al bene collettivo e quindi solo un equilibrio di potenza sembrerebbe rappresentare un fattore di stabilità, idoneo a scoraggiare rotture e sopraffazioni, con la conseguente necessità di mantenere in vita uno strumento militare idoneo per garantire la sicurezza in un contesto di pacifica cooperazione fra gli stati.
Firenze aprile 1997


1 C. Jean , I rapporti fra guerra e politica, in Rivista Militare, 1981, n.5, p.4
2 P. Pieri, Guerra e politica negli scrittori italiani, Milano, 1975, p. 10
3 Condorcet, Quadro storico dei progressi dello spirito umano, Milano, 1989, p.322
4 A. Glucksmann, Le discount de la guerre, Grosset, Parigi, 1979, p.137
5 Cit. in J.L. Borges L'Antologia personale, Milano, 1967, p.245
6 C. Jean, Introduzione, in Della Guerra di Clausewitz, ed.Rivista Militare, Bari, 1989, p.XI
7F. Engels, cit. in U.Curi-A.Stragà Riflessioni sulla concezione marxista del rapporto politica e
guerra in AA. VV., La guerra nel pensiero politico, Milano, 1987, p.62
8 Sulla precarietà di questo equilibrio e sulla sua intrinseca contraddizione in termini, degno di nota quanto osserva A. Zanfarino "Dove c'è equilibrio non ci può essere terrore, e dove c'è terrore l'equilibrio non può avere consistenza qualitativa e neppure stabilità meccanica" (in Filosofia politica e modernità umanistica, Napoli, 1991, p. 15)
9 N. Bobbio, II problema della guerra e le vie della pace, Bologna, 19913, p.57
10 G. Bouthoul, Le guerre-Elementi di polemologia, Milano 1982, pp. 74-75
11J. De Maistre, Considerazioni sulla Francia", Roma, 1985, p.20
12 Ibidem, p.24-25
13 cit. da M. Dal Fra in voce Hegel della "Enciclopedia Europea" vol.5, Garzanti, Milano 1977, p.945
14 A. Zanfarino, II pensiero politico contemporaneo, Napoli, 1994, p.94
15 Ibidem, p.364-365
16 cit. in G. Bouthoul, op. cit., pp.76
17 Ibidem pp.76-77
18 Ibidem p.77
19 Vds. P. Pieri op.cit. p.210 e V. Gallinari in Nicola Marselli Rivista Militare, n.5, 1978
20 In G. Bouthoul op. cit., l'opera viene indicata fra quelle che maggiormente sono state influenzate dal pensiero di Proudhon. È interessante notare che Marselli è l'unico scrittore italiano contemporaneo di cose militari citato nell'opera, sia pure in nota (p.567 nt.29). Il pensiero politico italiano contemporaneo, nel suo complesso, non trova spazio, infatti gli unici autori citati, marginalmente, sono Vilfredo Pareto, (p. 113 e p.318) e Giuseppe Ferrari, anche lui in nota (p.571 nt. 24).
21 P. Pieri, op.cit., p.211
22 In Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari, 1965, passim
23 N. Marselli La guerra e la sua storia , Roma, 1902, p. 104
24 A. Zanfarino, II pensiero politico contemporaneo, cit, p. 520
25 Le citazioni di G. Gentile e G. D'Annunzio sono tratte da M. Prospero, II pensiero politico della destra, Roma, 1996
26 II pensiero politico contemporaneo, cit, p.433
27 II riferimento è al progetto di Saint-Pierre, le cui proposte Cloots definisce bizzarre e ridicole e non a quello di Kant pubblicato nel 1795, quando Cloots era già morto.
28 Cit. in D. Archibugi, La democrazia nei progetti di pace perpetua in "Teoria politica", VI, n.l, 1990, p.113
29 Ibidem, p.114
30 Filosofia politica e modernità umanistica, cit., p.112
31 D.Archibugi, La democrazia nei progetti di pace perpetua, cit., p.122
32 Il pensiero politico contemporaneo, cit, p.37
33 Cit. in G. Bouthoul, op. cit., pp.76
34 I.Kant, Per la pace perpetua - Progetto filosofico, in Antologìa di scritti politici, Bologna, 1977, p.108
35 Ibidem, p.124
36 Filosofìa politica e modernità umanistica, cit., p. 113
37 Cfr.A. Zanfarino, II pensiero politico contemporaneo, cit, p.165
38 Ibidem p.253
39 cit. in U.Curi-A.Stragà Riflessioni sulla concezione marxista del rapporto politica e guerra, cit.,p.66
40 Il problema della guerra e le vie della pace, cit. p.37
41 D. Zolo, Cosmopolis-La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli, Milano, 1995, p.49
42 Ibidem, p.51
43 N.Bobbio, Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, Venezia, 1991, p.39
44 in Cosmopolis, cit. p.12
45 vds.P. Pieri, Guerra e politica negli scrittori italiani, cit., p.156 e ss
46 Su questa analogia di pensiero vds.C. Jean, Introduzione, in Della Guerra di Clausewitz, cit., p.XI; C. Ancona, L'influenza del «Vom Kriege» di Clausewitz su pensiero marxista da Marx a Lenin, in "Rivista storica del socialismo", 1965, n.25-26, p.135
47 L.Rizzi, Clausewitz-L'arte militare, l'età nucleare, Milano, 1987, p.5
48 In Le guerre-Elementi dì polemologia, cit., p.98
49 Vds.U.Curi-A.Stragà Riflessioni sulla concezione marxista del rapporto politica e guerra, cit.,p.56 e ss.
50 Cit. in C.Ancona, L'influenza del «Vom Kriege» di Clausewitz su pensiero marxista da Marx a Lenin, cit., p.129
51In I principi della guerra rivoluzionaria, Milano, 1970, p.25, cit. in C. Jean, Introduzione, in Della Guerra di Clausewitz, cit., p.XII
52 Sulla guerra dilunga durata,(1938) in Citazioni dalle opere del Presidente Mao Tse-Tung, tr. it., Pechino, 1967, p.61-62
53 Problemi strategici della guerra rivoluzionaria in Cina,(1936) in Ibidem.,, p.61
54 Conquista e usurpazione, tr.it., Torino, 1983, pp. 13-14
55 Cit. in G. Bouthoul, op.cit., p.59
56 Della libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, cit. in L.Bonanate, Guerra e ideologia-li posto della guerra nel pensiero liberaldemocratico, in AA. VV., La guerra nel pensiero politico, cit. p.25
57 La Democrazia in America, tr.it., Milano, 1992, p.679
58 Ibidem, p.695
59Cosmopolis, cit. p.193