sabato 23 novembre 2013

LA GUERRA COME FORMA ESTREMA DI CONFLITTO

Oggi proponiamo un interessante saggio apparso nel 2006 sulla rivista di filosofia on line Metabasis.it

(UN’ANALISI SOCIOLOGICA CHE PRENDE SPUNTO DA UNA “POLEMICA” DI JULIEN FREUND)
di Carlo Gambescia

Prologo. La “benevolenza” non basta

C’è un aneddoto che riguarda la vita del sociologo Julien Freund (1921 - 1993), ricordato da Jeronimo Molina1, veramente illuminante per capire, grazie alla causticità di Freund, la natura del conflitto, del nemico, della guerra e del pacifismo.

Julien Freund 

Nel 1965 durante la discussione della tesi di dottorato, consacrata all’Essence du politique2 uno dei commissari presenti, Jean Hyppolite, studioso di Hegel e Marx, fece notare a Freund, che se la sua tesi sulla natura polemologica del politico, fondata appunto sulla distinzione amico-nemico, si fosse rivelata esatta, a un fervente pacifista come lui, sarebbe rimasta, come sola via di fuga, il giardinaggio. La riposta di Freund fu bruciante: Hyppolite non avrebbe potuto dedicarsi neanche ai suoi fiori, perché il nemico non glielo avrebbe permesso. A sua volta, Hyppolite replicò che allora non gli sarebbe rimasto che il suicidio. Dando così una risposta patetica che evidenziava, ed evidenzia, la natura nichilistica e irrazionale del pacifismo, non meno distruttiva, per l’individuo, della guerra.


Ma in realtà, il grande valore dell’osservazione di Freund, è nel fatto che disvela una verità “effettuale” tremenda, che lascia attoniti, e ovviamente inaccettabile per qualsiasi forma di moralismo pacifista: la benevolenza non sopprime il nemico, dal momento che è il nemico stesso che ci designa come suoi nemici mortali.

I tre fattori sociologici della guerra

E’ una tesi, come è noto, che Freund riprende da Carl Schimtt3, ovviamente sviluppandola sul piano euristico, in modo personale, originale e innovativo. Anche noi la utilizzeremo, come punto di partenza per una breve ricognizione in argomento.


Dal punto di vista sociologico perciò il primo fattore che distingue la guerra, come forma estrema di conflitto, è quello riconducibile alla dicotomia amico-nemico4. Il che ci porta al secondo fattore: la guerra implica l’esistenza di gruppi sociali organizzati, e non di individui dediti a coltivare i propri interessi privati. La nozione di gruppo sociale organizzato chiama in causa a sua volta, come terzo fattore, il fatto che ogni gruppo, di regola, si organizza intorno a valori e istituzioni pubblicamente condivisi.
Riassumendo, i tre fattori sociologi della guerra sono:
a) presenza della distinzione amico-nemico (Freund-Schmitt); 
b) di un gruppo organizzato; 
c) di valori culturali condivisi.
Come può essere determinato il “peso specifico” di ogni singolo fattore?
La dicotomia amico-nemico ha un’importanza fondamentale. Ma, innanzitutto, si tratta di una “dicotomia” antropologica o sociologica? Senza pretendere di risalire al fondamento etologico della socialità umana, si può asserire che la distinzione amico-nemico discende dalla capacità umana di organizzare la conoscenza per categorie sociali.


E’ quindi un “dato” antropologico. Che tuttavia ha una ricaduta sociologica: dal momento che il giudizio, come forma di categorizzazione sociale del mondo che ci circonda (come classificazione per categorie, nei vari settori della vita sociale, di quel che deve o non deve essere) si traduce sempre in una “gerarchizzazione” della realtà sociale5. Quindi contrariamente a quanto ha sostenuto lo stesso Freund, il conflitto non è frutto di uno scontro tra due volontà ostili volta a mantenere, affermare o ristabilire un diritto (o comunque non è solo questo)6, ma è sempre conseguenza della capacità umana di giudicare il mondo: giudicare significa designare le differenze, e sulla base delle differenze nascono le discriminazioni, e da queste ultime i conflitti7. Se non ci fosse giudizio, ci sarebbe solo cieca potenza. Il conflitto è la conseguenza del tentativo di ridurre le differenze: di ridurre il molteplice, frutto della categorizzazione sociale, all’unico.
Ovviamente dove non c’è giudizio, cioè intelligenza delle categorie sociali, non può esserci conflitto, ma solo animalesco contrasto.


Non meno importante è l’esistenza del gruppo sociale organizzato. Dal momento che si tratta di un fenomeno strettamente collegato alla categorizzazione sociale, nel senso che lo sviluppo del primo non può escludere quello della seconda: organizzazione e categorizzazione vanno di pari passo8. La possibilità di giudicare chi appartenga o meno a un certo gruppo rinvia alle categorie sociali del “noi” e del “loro”, che ritroviamo in tutti i gruppi organizzati. E quanto più il gruppo è strutturato, e quindi quanto più significative sono le capacità di categorizzazione, tanto più grave è il rischio di conflitti e di guerre. Ad esempio, al gruppo semplice, pre-statuale, poco strutturato di cacciatori e raccoglitori, che confligge esclusivamente sulla base di una istintualità animale legata alla pura difesa del territorio, può perciò essere contrapposto, il gruppo complesso, statuale, molto strutturato, rappresentato dallo stato-nazione, che confligge con altri gruppi statuali, sulla base di forme di categorizzazione sociale, molto sofisticate, che lo allontanano dalla istintiva territorialità animale (ideologie politiche, principi religiosi, dottrine razziali, teorie sociali ed economiche), ma ben più pericolose di questa, come mostra la storia moderna, dall’emergere dello stato assoluto ai totalitarismi novecenteschi. Tra questi due estremi vanno poi collocate, senza però seguire alcuna linea evolutiva prefissata, istituzioni politiche e sociali molto diverse, dalla Città-Stato al Comune mercantile, dall’Impero allo Stato regionale premoderno9.
Resta infine da esaminare il terzo fattore, non meno importante dei due precedenti, ai quali del resto è collegato: i valori condivisi (pubblicamente) costituiscono il sostrato socioculturale del conflitto. Quanto più il gruppo condivide e sostiene i “valori fondanti” tanto più aumenta la sua capacità di giudicare e gerarchizzare l’altro10. La condivisione è così importante dal punto di vista della categorizzazione e riproduzione sociale, che le élite dominanti, regolarmente, al minimo indizio di crisi, come spesso accade nella storia, tentano di rinsaldare i valori comuni, indicando un nemico esterno. Pertanto le situazioni di crisi sociale e culturale, se non sfociano in rivolte e rivoluzioni, finiscono sempre per produrre conflitti e guerre. Anche nel caso dei valori condivisi, tra una condizione di assoluta anomia e una segnata dal forte senso delle identità collettive (e conoscitive) vanno registrate situazioni intermedie11. In genere, livelli elevati di anomia, spesso frutto nella storia delle cosiddette pax imperiali, coesistono con una forte centralizzazione del potere, che di solito è tanto più assoluto, quanto più l’individuo è privo di qualsiasi riferimento identitario12.



Questi tre fattori riguardano la costituzione e lo sviluppo di ogni gruppo sociale, a prescindere dal tipo di organizzazione politica (democratica, non democratica, ademocratica) che esso possa darsi. Sono dunque concatenati e hanno, per rispondere alla domanda iniziale, sia sul piano euristico che su quello “effettuale” lo stesso “peso specifico”.
Per riprendere il classico linguaggio aristotelico, la guerra, come forma estrema di conflitto, è una “potenza”, uno “stato” in divenire, della società insita nell’organizzazione stessa del gruppo sociale, che nel tempo si trasforma o si realizza pienamente, come “atto”, passando per tutta la gamma a cui danno luogo le relazioni di inimicizia: coercizione, pressione, polemica, opposizione, concorrenza e competizione, lotta fisica, combattimento. Il seme-guerra contiene la pianta-guerra in potenza: la pianta-guerra sviluppata è il seme-guerra divenuto atto. E il periodo che trascorre tra la guerra-potenza e la guerra-atto, racchiude quelli che sono gli stretti confini o limiti di un periodo di pace13.

Case study: gli Stati Uniti

A questo punto può essere interessante fornire qualche esempio concreto, di come interagiscano nella pratica i tre fattori sociologici individuati usando l’attuale politica statunitense come case study14.
La politica americana, dalla dissoluzione del comunismo sovietico (1989-1991) a oggi è stata caratterizzata dalla progressiva assunzione di “obblighi” imperiali, in un quadro politico semi-unipolare, privo della figura essenziale del Terzo (aspetto su cui torneremo più avanti), e dove appunto la Cina, come potenza, gioca un ruolo politico (ma non economico) per ora ancora marginale.
Dal punto di vista della sociologia del conflitto, gli Stati Uniti possono essere definiti una nazione a forte categorizzazione sociale (come è testimoniato ad esempio dalla tendenza a “gerarchizzare”, in politica estera, i nemici secondo categorie morali)15; ad alto livello di istituzionalizzazione (come è evidenziato dalla natura oligopolistica e accentrata del potere politico-economico)16; e con un patrimonio di valori “costituzionali” condivisi pubblicamente, che tuttavia rischia si essere eroso dal crescente senso di anomia, che va diffondendosi nella società americana, soprattutto tra gli americani di recente immigrazione (i latinos) e le fasce marginali di popolazione (neri e bianchi “poveri”)17.



Quest’ultimo aspetto è molto importante, dal momento che se per un lato, spinge la politica estera americana verso la scelta di obiettivi militari “esterni”, per rinsaldare l’unità interna (le avventure militari, oltre ad alimentare un patriottismo da categorizzazione sociale, possono costituire una valvola di sfogo a breve termine per l’economia e uno sbocco professionale per le fasce svantaggiate della popolazione), per un altro lato provocano invece nelle classi medie, sconcerto e sfiducia nelle loro prospettive di ascesa sociale a medio e lungo periodo, che una situazione di guerra, dai costi economici e sociali crescenti ed elevati rischia di compromettere18.
Da questo punto di vista l’impegno militare americano nel mondo, post-crisi sovietica, che risale non all’11 Settembre, ma alla Prima Guerra del Golfo, è destinato a durare e avere successo, solo nella misura in cui, il conflitto militare riuscirà nel suo scopo di rinsaldare l’unità interna, integrare le ultime generazioni di immigrati, o comunque tenere sotto controllo la crescente situazione di anomia e incertezza in cui versano i ceti medi.
Va poi aggiunto, e questo è un elemento complementare, rispetto a quello rappresentato dai tre fattori indicati, che una condizione segnata da un forte sforzo economico-bellico, di regola, implica il progressivo accentramento delle istituzioni politiche, sociali ed economiche. 



Di qui la possibilità che gli Stati Uniti possano trasformarsi, nel tempo, in uno stato di polizia burocratizzato e militarista, incapace di sostenere economicamente un costoso gigantismo amministrativo e politico, e quindi di “autoriprodursi, come è accaduto per altre entità macropolitiche ( l’Impero Romano ad esempio)19. Sussiste insomma il rischio che la guerra possa mettere in moto quei meccanismi centrifughi, attraverso i quali i tre fattori sociologici qui individuati (designazione del nemico, riorganizzazione sociale e sviluppo di valori condivisi), iniziano a riprodursi e proliferare all’interno di quelle microunità politiche che sorgono quando le macrounità entrano in un’età di sconvolgimenti e decadenza, fase che purtroppo prelude sempre alla loro eclissi definitiva20.

Ancora sulla “benevolenza”

E’ giunto il momento di ritornare a Julien Freund, e alle sue secche e taglienti parole di risposta a Jean Hyppolite. Se è il nemico a puntare il dito contro di noi, per la “benevolenza” o comunque per la volontà di pace, non c’è proprio alcuno spazio?
Non è facile rispondere, soprattutto se la pace deve essere intesa, come abbiamo notato, come quel periodo sociale che intercorre tra la guerra in potenza e la guerra in atto. Certo, si può cercare di prolungare questa fase intermedia, ma non si può per sempre evitare la guerra, come non si può evitare a una pianta, a un organismo, a un bambino di crescere. Così come del resto non è possibile evitare il conflitto, anche nelle sue forme meno pericolose della contesa politica, economica, culturale e religiosa.
Si dirà: ma un organismo “tumorale” come la guerra deve essere in qualche modo fermato. Ma si è sicuri che la guerra possa essere definita in questi termini? La guerra, come i conflitti in genere, implica la cooperazione: la solidarietà interna ai gruppi che si contrastano, spesso è il rovescio della medaglia-guerra. Nelle relazioni sociali la cooperazione è una costante sociale, alla stessa stregua del conflitto. Il punto è che il conflitto richiede la cooperazione e la cooperazione il conflitto: ci si organizza sempre “con” i simili e “contro” i dissimili21. E qui basta ricordare, anche solo a livello di linguaggio simbolico, il ruolo assunto nella vita sociale dagli “eserciti” sindacali o del “lavoro”, delle “armate” della fede, della “cultura” e non solo degli eserciti veri e propri.
La tesi della guerra, non come organismo ma come “escrescenza tumorale” (per essere più precisi), potrebbe avere “eccezionalmente” un valore “morale”, nei riguardi della guerra atomica, o comunque verso una guerra, che implicasse l’immediata e automatica distruzione non solo della specie umana, ma dell’intero pianeta.



Ma è moralmente giusto, oltre che euristicamente corretto, costruire e sostenere una teoria sociologica “pacifista” della guerra, che tra l’altro è di solito usata come strumento per politiche belliciste e di potenza? E magari proprio sulle basi di una eccezionalità (dal momento che l’uso dell’arma “totale” è possibile ma non probabile) più morale che storica? Eccezionalità, che proprio perché tale, non spiega il comportamento effettivo dell’uomo? Che, come abbiamo spiegato, è portato naturalmente a giudicare e quindi a confliggere con il dissimile e a cooperare con il simile, a prescindere da ogni eccezionalità morale, o peggio moralistica.
Secondo alcuni studiosi l’unico modo per prolungare la fase che intercorre tra guerra in potenza e guerra in atto potrebbe essere quello di sublimare il conflitto22 e di creare una cultura della cooperazione23.
E qui si aprono altri problemi.
Perché se sublimare significa sostituire all’aggressione militare l’aggressione verbale, allora la sublimazione rappresenta una forma di conflitto larvato, che può comunque condurre, prima o poi, a quello manifesto, armato e violento. Se sublimare invece significa incanalare gli impulsi aggressivi in comportamenti più elevati, non aggressivi e violenti, la sublimazione resta di difficile attuazione in una società basata sulla naturale capacità dell’uomo di giudicare, organizzarsi in gruppi. Attuazione che diviene addirittura impossibile e utopistica in una società fortemente imbevuta di cultura competitiva e conflittuale, come quella in cui oggi viviamo.
Quanto alla cultura della cooperazione, il punto è un altro. Si coopera sempre, giudicando il proprio apporto sulla base di quello che viene “apportato” da altri. E qui si ha subito un primo elemento di categorizzazione sociale. Il giudizio determina gerarchie: “io lavoro più di te”, oppure “il nostro gruppo lavora più del vostro”. E di lì sorgono subito sovrastrutture ideologiche, distinzioni, sovrapposizioni di valori: tutti possibili elementi di attrito e dunque conflitto. Pertanto anche la cultura della cooperazione ha il suo lato “oscuro”. Del resto oggi, come per la sublimazione, sarebbe particolarmente difficile per l’uomo comune riscoprire improvvisamente, in una società in cui si celebra il valore dell’invidia, l’importanza della cooperazione altruistica per il puro bene dell’altro24.

Epilogo. La figura del Terzo

Per uscire da questo vicolo cieco può esserci di nuovo utile la riflessione di Freund.



Che ci invita non tanto immaginare impossibili mutazioni antropologiche, ma a riflettere sulla figura sociologica del Terzo.
Il Terzo secondo Freund segna il passaggio dalla dinamica sociologica relazionale a due soggetti, segnata dal conflitto alla composizione superpartes, ad opera appunto del Terzo neutrale, come mediatore o arbitro. Il sociologo francese ha studiato in particolare questo tema in Sociologie du conflit25. Indicando una serie di configurazioni, anche molte diverse, che il Terzo può assumere. Vediamole:
a) l’alleato, che interviene direttamente a fianco di uno due contendenti; 
b) il protettore che interviene indirettamente dall’esterno, e che secondo i casi può assumere la veste del dissuasore, del mediatore, ma che può anche tornare sui suoi passi e restare neutrale ; 
c) il Terzo profittatore che si inserisce in un conflitto per trarne il massimo vantaggio personale.
Per tornare all’esempio americano, quel che si evidenzia nella presente situazione politica internazionale, è la mancanza di un Terzo, che possa influire, come dissuasore o mediatore, sull’evoluzione di un conflitto militare, che rischia non solo di estendersi all’intero Medio Oriente, ma di provocare gravi ripercussioni politiche, economiche nello stesso Occidente. Ecco, la figura sociologica del Terzo può rappresentare il “quarto fattore” in grado non di eliminare conflitti e guerre per sempre ma di gestirli, mitigarli, indirizzarli. E soprattutto di assicurare che il periodo che intercorre fra guerra- potenza e la guerra-atto, sia graduale, privo di scossoni, e se necessario molto lento, come per alcune specie arboree che richiedono decenni se non secoli per giungere a completo sviluppo.
L’età del Terzo - così può essere chiamato questo periodo di lenta evoluzione - non può che ispirarsi, e quindi essere frutto dell’idea di equilibrio politico. Anche perché l’accettazione della figura del Terzo indica sempre che c’è una volontà di trattare. Che sussiste una disposizione all’accordo, al compromesso alla transazione. Si accetta
insomma quel circolo virtuoso sociale che permette intanto di passare dall’antagonismo all’agonismo sociale: dal conflitto senza esclusione di colpi alla competizione leale in presenza di un arbitro. Il Terzo è quella figura, per riprendere l’esempio precedente, che stabilisce che l’apporto di lavoro di ognuno e pari a quello di ogni altro. Non rifiuta la categorizzazione, e quindi la gerarchizzazione, ma la mitiga, trasforma, umanizza e rende accettabile in virtù della sua autorità, che può essere politica, culturale, economica e religiosa, e mai soltanto militare.
Il Terzo è consenso e non soltanto forza. Ad esempio, si tratta di un ruolo che sul piano interno può essere giocato dallo Stato, e su quello esterno da una Potenza Terza rispetto ai contendenti, o da una istituzione internazionale particolarmente autorevole.
Invece, nei rapporti sociali, un identico ruolo può essere svolto da leader religiosi politici, sindacali. Quanto alla famiglia e ai gruppi sociali più ristretti, il Terzo può essere rappresentato da figure parentali e di anziani particolarmente apprezzate per la saggezza e l’autorevolezza26.
Il Terzo scrive Freund “è un fattore fondamentale di concordia interna (…), il suo ruolo non consiste soltanto nell’essere un capace ammortizzatore di crisi, antagonismi e tensioni, ma anche di fungere da intermediario per favorire la comunicazione tra coloro che volutamente si ignorano o che sono in conflitto. A conti fatti, il terzo incarna la configurazione elementare di una società, dal momento che ne condiziona l’equilibrio, rende possibile le combinazioni sociali più differenti, e al contempo, è un fattore di dissuasione dai conflitti interni (…). Il terzo è la condizione che garantisce stabilità nelle società libere”27 .
Probabilmente il Terzo, aggiungiamo noi, dissuadendo e mantenendo nei giusti limiti ogni conflitto, e quindi anche la guerra, permetterebbe al professor Hyppolite e ai suoi emuli pacifisti di oggi, di dedicarsi al giardinaggio. Un’attività tutto sommato piacevole e comunque sempre preferibile al suicidio.

NOTE

1. J. Molina, Julien Freund lo politico y la politica, Sequitur, Madrid 2000, p. 19
2. Come è noto si tratta della sua opera più importante. Si veda la recente riedizione, L’Essence du politique, Dalloz, 2004, ristampa della terza edizione (1986, la seconda è del 1978, la prima del 1965; d’ora in poi la data della prima edizione in lingua originale di ogni volume citato viene indicata tra parentesi tonde, subito dopo il titolo), postfazione di P.-A. Taguieff. Per un bibliografia aggiornata di e su Freund si veda A. de Benoist, Julien Freund (1921-1993), una bibliografia in “Empresas Polìticas”, III, n. 5, 2 semestre 2004 (fascicolo dedicato a Freund).
3. Ovviamente si rinvia al celebre studio di Schmitt sul concetto di politico (1932). Si veda la bella silloge C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, il Mulino, Bologna 1988 (1972), a cura di G. Miglio e P. Schiera, in particolare pp. 87-165. Per una rassegna dei più recenti contributi bibliografici su C. Schmitt si rinvia a “Empresas Polìticas, III, n. 4, 1 semestre 2004, (fascicolo dedicato a C. Schmitt), in particolare pp. 131-135 (Carl Schmitt: Relaciòn bibliogràfica 2000-2004, a cura di J. Molina).
4. Sulla sociologia della guerra si veda innanzitutto il classico studio di G. Bouthoul, Le guerre. Elementi di polemologia (1950), Longanesi, Milano 1961 (di taglio vecchia scuola positivista, ma ricco di informazioni fondamentali). Va anche presa in considerazione, malgrado possa apparire datata perché addirittura precedente al testo di Bouthoul, la trattazione, estesa alla sociologie “della lotta per l’esistenza” che fa del tema P.A. Sorokin, Storia delle teorie sociologiche (1928), Città Nuova Editrice, Roma 1974, pp. 301-348, che in poche dense pagine mette a fuoco una serie di problemi ancora oggi importanti (forme del conflitto, funzioni ed effetti sociali della guerra, i fattori della guerra). Invece per una rassegna aggiornata, ragionata e interessante, si rinvia ad A. Panebianco, Guerra – politica, in AA. VV., Enciclopedia della Scienze Sociali, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1994, vol. IV, pp. 465-488, nonché sempre di A. Panebianco, Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza, il Mulino, Bologna 1997. Ma si veda anche J. Freund, La guerre dans les sociétés modernes, in J. Poirier (sous la direction de), Histoire des moeurs, Gallimard, Paris 2002 (1991), vol. III, tomo I, pp. 382-458, come utile correttivo all’ottimismo liberaldemocratico di Panebianco. Uno studioso, che tra l’altro è ben consapevole, come Freund del resto, di quanto sia difficile per una sociologia politica, come l’attuale, dalle radici illuministiche e perciò votata alla costruzione di una utopistica pace universale, trattare realisticamente il tema della guerra. Su questi argomenti utili accenni in A. Campi, Trittico sulla guerra – Schmitt, Aron, Freund, “Avallon. L’uomo e il sacro”, n. 35, pp. 101-110.
5. Quando parliamo di “giudizio” ci riferiamo a un’attività socio-psicologica, che include gli aspetti cognitivi, simbolici e di stereotipizzazione sociale del comportamento collettivo. La categorizzazione e la gerarchizzazione sono fenomeni ricorrenti e necessari per l’ ordinato svolgersi della vita sociale. Il giudizio, in quanto fatto sociale, implica la memoria collettiva, la mimesi, e la reiterazione comportamentale, ma anche la capacità, di opporsi a esso, attraverso un processo, generalmente individuale-collettivo-individuale di creazione-distruzione di nuove forme di giudizio e gerarchizzazione. Su questi aspetti rinviamo a S. Moscovici, La fabbrica degli dei. Saggio sulle passioni individuali e collettive (1988), il Mulino, Bologna 1991, e più in particolare sui problemi della categorizzazione S. Moscovici (a cura di), Psicologia sociale (1984), Borla, Roma 1996, in particolare la parte terza, pp. 263-419. Va detto che Moscovici e la sua scuola, preferiscono parlare piuttosto di “rappresentazioni” che di “categorizzazioni”. Di più specifico in argomento si veda H. Tajfel, Gruppi umani e categorie sociali (1981), il Mulino, Bologna 1995.

6. Si veda la definizione di conflitto in J. Freund, Sociologie du conflit, Puf, Paris 1983, p. 65. Quanto ai rapporti su diritto e conflitto in Freund, la cui disamina ci porterebbe tropo lontano, si veda J. Molina, La théorie polémologique du droit de Julien Freund, “Krisis”, n. 26, 2005, pp. 135-166, a commento di J. Freund, La dialectique di droit, ivi, pp. 114-134.

7. Su questi aspetti “discriminanti” si veda L. Dumont, Le valeur chez le modernes et chez les autres, in Id., Essais surl’individualisme, Editions du Seuil, Paris 1983, pp. 254-299. Si cfr. anche P.A-Taguieff, La force du préjugé. Essai sur le racisme e ses doubles (1987), Tel Gallimard, Paris 1990. Tuttavia, a nostro avviso, e pur condannando qualsiasi forma di etnocentrismo, resta comunque difficile se non proprio impossibile individuare sul piano sociopsicologico, qualsiasi differenza tra giudizio e pregiudizio. Del resto non si evince dallo stesso libro di Taguieff che esiste il razzismo dell’antirazzismo? Cioè di coloro che dovrebbero essere privi di “pregiudizi”, proprio perché ragionevoli e informati…

8. Su questo aspetti si veda F. Alberoni, Movimento e istituzione, il Mulino, Bologna 1977, in particolare, pp. 141-234.
9. Su questo secondo fattore e sulla dialettica tra le varie forme istituzionali e sociali nella storia si veda, anche come esempio di un gigantesco sforzo interpretativo e di sintesi che ricorda il Trattato di Sociologia paretiano, S.E. Finer, The History of Government (1997, 1999) Oxford University Press, Oxford (UK) 2003. Molto utile l’introduzione teorica (The Conceptual Prologue), in vol. I, Ancient Monarchies and Empires, cit., pp. 1-96.
10. Su questi aspetti rinviamo alle analisi di P.A. Sorokin, Society, Culture and Personality: Their Structure and Dynamics. A System of General Sociology (1947), Cooper Square Publisher Inc, New Yor 1962, in particolare parti III (Structure Social Universe), pp. 69-178, IV (Social Differerentiation and Stratification), pp. 181-310; VI (The Dynamics of Cultural Processes), pp. 537-723. Su Sorokin rinviamo al nostro Invito alla lettura di Sorokin, Edizioni Settimo Sigillo 2002.
11. Questi processi sono studiati in P.A. Sorokin, Social Philosophies of an Age of Crisis, The Bacon Press, Boston 1951.
12. Sulle dinamiche dello sviluppo, dissoluzione e decadenza dei grandi imperi si veda la classica opera di S.N. Eisenstadt, The Political Systems of Empires (1963), Transaction Publishers, New Brunswick (USA) and London (UK) 1993, pp. 309-360 (Processes of Change).
13. In certo senso ha visto giusto Proudhon quando scrive che guerra e pace “si completano e si sostengono, come termini inversi, ma adeguati e inseparabili di un’antinomia. La pace dimostra e conferma la guerra; la guerra a sua volta è una rivendicazione di pace”. Citato in J. Freund, L’homme le la guerre, cit., p. 385.
14. Per l’inquadramento storico abbiamo usato B. Cartosio, Gli Stati Uniti contemporanei (1865-2002), Giunti, Firenze 2002, pp. 173-204 (Da Bill Clinton a George W. Bush). Per la politica estera W. Russell Mead, Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti d’America (2001), Garzanti, Milano 2005.
15. Un esempio erudito della necessità, qui evidenziata, di “gerarchizzare” le civiltà in funzione di quella americana è dato da S.M. Huntington, Lo scontro delle Civiltà e il nuovo ordine mondiale (1996) Garzanti, Milano 1997. Ma dello stesso autore si veda La Nuova America. Le sfide della società multiculturale (2004), Garzanti, Milano 2005, vero grido di allarme, a proposito della difficoltà di “categorizzare” le nuove ondate di immigrati, soprattutto ispanici. Ma si veda soprattutto per capire le radici storiche del fenomeno la sempre utile antologia di P. Bairati, I profeti dell’impero americano. Dal periodo coloniale ai nostri giorni, Einaudi, Torino 1975.
16. Su questi aspetti si veda K. Phillips, Ricchezza e democrazia. Una storia politica del capitalismo americano (2002), Garzanti Milano 2005, che affronta i perversi legami tra accentramento della ricchezza e conseguente mancanza di democrazia.
17. Si veda S.M. Huntington, La Nuova America, cit., pp. 265-305 (su immigrazione messicana e ispanizzazione), interessante sia per la ricchezza di dati, che come testimonianza dello stato d’animo di un tipico intellettuale americano, che teme di perdere le tradizionali “categorie” e gerarchie di riferimento wasp. Per il versante radical che “categorizza”, al contrario, discriminando i “bianchi”, si veda M. Davis, I latinos alla conquista degli Usa (2000), Feltrinelli, Milano 2002, un libro comunque interessante.
18. Cfr. C. Johnson, Gli ultimi giorni dell’impero americano (2000), Garzanti, Milano 2001; E. Todd, Dopo l’impero: La dissoluzione del sistema americano (2002), Marco Troppa Editore, Farigliano (CN) 2003. Sulla crisi dell’individualismo e dei ceti medi si veda R. D. Putnam, Capitalismo sociale e individualismo. Crisi e rinascita sociale della cultura civica negli Stati Uniti (2000), il Mulino, Bologna 2004. Il cui ottimismo va bilanciato col pessimismo di B. Glassner, The Culture of Fear, Basics Books New York 1999.
19. Si veda in argomento il testo di P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze (1987), Garzanti, Milano 1989, che giudicava l’America in “relativo declino”, già prima della dissoluzione dell’Unione Sovietica, a causa dei crescenti costi economici e politici di un preoccupante gigantismo militare.
20. Il processo è sociologicamente ben ricostruito e descritto da S.N. Eisenstadt, op. cit., pp. 353-359. Ma si veda anche C. Quigley, The Evolution of Civilization. An Introduction to Historical Analysis (1961), Liberty Fund, Indianapolis 1979, in particolare pp. 127-166. Un piccolo classico da riscoprire.
21. Si vedano a riguardo le interessanti tesi sviluppate, addirittura attraverso il supporto matematico della “cliometrics”da P. Turchin, Historical Dynamics: Why States Rise and Fall, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2003, pp. 29-49 (Collective solidarity), 50-77 (The Metaethnic Frontier Theory).
22. Si veda come esempio di questo approccio A. Kohn, La fine della competizione (1992), Baldini & Castaldi, Milano 1999.
23. Per un esempio a riguardo cfr. M. Iuergensmeyer, Come Gandhi. Un metodo per risolvere i conflitti, Editori Laterza, Roma-Bari 2004.
24. Sulla natura di queste difficoltà si rinvia al nostro Il migliore dei mondi possibili. Il mito della società dei consumi, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2005 Per una teorizzazione “esemplare”, dell’invidia come fattore di progresso sociale, cfr. H. Schoeck, L’invidia e la società (1971), Rusconi Editore, Milano 1974. Ma si potrebbe risalire fino a Bernard de Mandeville e alla sua Favola delle api (1705-1723). In proposito si veda G. Borghi, Mandeville, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2004, in appendice il testo mandevilliano.
25. Un buona guida al testo è rappresentata dall’introduzione di A. Campi all’ottima silloge italiana degli scritti politologici di J. Freund Il terzo, il nemico, il conflitto. Materiali per una teoria del Politico, Giuffrè Editore, Milano 1995, in particolare pp. 24-34, apparsa nella prestigiosa collana “Arcana Imperii” diretta dal compianto Gianfranco Miglio.
26. Sotto questo aspetto, come dire, la filosofia del Terzo implica, almeno a nostro avviso, quello che Claudio Bonvecchio ha definito “pensiero forte”. O meglio un “pensiero simbolico” capace di “pensare” il trascendente, senza per questo perdere di vista la realtà. Una fusione, insomma, di reale e ideale, di concretezza e volontà di cambiare le cose. Un pensiero capace di conciliare come impone la figura del Terzo, le ragioni della guerra e della pace. Si veda in proposito C. Bonvecchio, Il pensiero forte. La sfida simbolica alla modernità, pref. di C. Risé, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2000.
27. J. Freund, Sociologie du conflit, cit., pp. 300-301.




lunedì 14 ottobre 2013

Raymond Aron: come essere liberali oggi. Parte seconda

Trent'anni fa, il 17 ottobre 1983, moriva a Parigi Raymond Aron, filosofo, sociologo, giornalista, considerato uno più autorevoli intellettuali di orientamento liberale del XX secolo.
Con questo seconda parte di un saggio a lui dedicato vogliamo rievocarne il ricordo. La prima parte può essere consultata qui.
Per capire il pensiero di Aron è necessario ricostruire il peculiare rapporto che egli mantiene con i classici del pensiero sociologico e politico. Il suo atteggiamento di fronte a qualunque problema contemporaneo è quello di chiedersi innanzitutto: come lo avrebbero interpretato i grandi autori del passato.
Questa sua preferenza traspare anche dagli scarsi riferimenti che egli fa, nelle sue opere, alle ricerche contemporanee, limitandosi a citare solo i pochi titoli universalmente giudicati importanti, mentre i riferimenti ai classici sono continui.



Si tratta di una specie di dialogo costante che si sviluppa e si definisce per affinità e opposizioni.
Le prime riguardano essenzialmente Weber, Montesquieu e Tocqueville, che Aron considera i suoi veri maestri; mentre le seconde riguardano, da un lato i maestri del positivismo francese (Comte e Durkheim) e italiano (Pareto) e dall'altro Marx.
Si tratta di scelte che sono coerenti con le posizioni espresse, nella sua principale opera filosofica "L'introduction à la philosophie de l'histoire".

 

La domanda da porsi è: cosa c'è di affine in autori come Weber, Montesquieu e Tocqueville fra di loro e con Aron stesso? Perché Aron si riconosce nelle loro opere?
Si tratta di autori che, nonostante le differenze, a volte rilevanti che esistono fra di loro, utilizzano elementi comuni nei loro metodi di indagine; in tutti e tre troviamo infatti il rifiuto del determinismo, l'avversione per le teorie mono-causali della storia, l'enfasi sulla molteplicità dei punti di vista e sulla complessità dei processi storici, la consapevolezza che la sociologia può individuare solo causalità parziali (ossia specifiche cause di specifici effetti) senza con questo precludersi la possibilità di tentare grandi sintesi: si tratti della ricostruzione di linee generali di tendenza oppure dell'individuazione dei principi di funzionamento delle diverse società storiche.
Vi è inoltre in tutti e tre un interesse particolare per la politica, intesa come dimensione centrale e primaria di qualunque organizzazione societaria, mentre rifiutano categoricamente quell'aspetto della sociologia tendente a risolvere la politica in altro da sé, tendenza che Panebianco in un suo saggio chiama "sociologismo" (1).
In tutti e tre troviamo il tentativo di dare risposte originali, in chiave storico sociologica, a interrogativi posti a suo tempo dalla filosofia politica classica, e questo è stato fatto cercando di collegare l'analisi dei regimi politici a quella della più generale evoluzione societaria.
Vi è infine in tutti una preoccupazione squisitamente politica: il futuro della libertà individuale nella società moderna.
Se confrontiamo queste caratteristiche comuni dei nostri tre autori con quanto detto su Aron nella prima parte, ci si spiega l'affinità che egli sente nei loro confronti.

Max Weber (1864 - 1920)
Per quanto riguarda Weber, troviamo in Aron un costante confronto con il suo pensiero a partire dalle prime opere scritte negli anni trenta, al rientro dal suo soggiorno di studio in Germania; ritengo tuttavia sufficiente ai nostri fini, soffermarci su la valutazione che il nostro fa della sociologia politica di Weber soprattutto ne "Le tappe del pensiero sociologico".
Max Weber appartiene alla scuola di quei sociologi il cui interessamento per la società prende le mosse dall'interessamento che essi hanno per la cosa pubblica. Come Machiavelli, egli è nel numero di quei sociologi che sono nostalgici dell'azione politica e che avrebbero voluto prendere parte alla lotta politica ed esercitare il potere. Sognava di essere uno statista; di fatto non fu un uomo politico, ma soltanto un consigliere del sovrano, naturalmente inascoltato. (2)
Della sociologia politica di Weber Aron evidenzia anche alcuni aspetti meno coerenti. In particolare osserva che mentre elabora quattro tipi azione sociale (razionale, affettivo, tradizionale o religioso e d'interesse) indica solo tre tipi di potere (legittimo carismatico e tradizionale). Questo si verifica in quanto Weber non fa mai una scelta netta fra concetti puramente analitici e concetti semi-storici e pertanto sempre secondo Aron:
le tre forme di potere, che dovrebbero essere considerate come puri e semplici concetti analitici, vengono da Weber investite contemporaneamente, di un significato storico (3) 
e queste difficoltà di ordine scientifico sono determinate dalla pressione dei problemi politici che angustiano Weber:
La sociologia politica di Weber, è inseparabile dalla situazione storica in cui visse. Politicamente nella Germania guglielmina, Max Weber era un nazional-liberale, ma non un liberale nel senso americano e, rigorosamente parlando, non fu neppure un democratico nel senso che francesi, inglesi o americani davano o danno a questo termine. Egli poneva la grandezza della nazione e la potenza dello Stato al di sopra di tutto. (4)
La relazione fra la sua sociologia politica e le sue posizioni politiche discendeva dal fatto che Weber voleva per la Germania un sistema parlamentare di tipo inglese, allo scopo di favorire l'emergere di capi carismatici eletti dal popolo in grado di sottomettere il potere burocratico, eredità negativa lasciata da Bismarck, ed in tal modo assicurare alla Germania quella vigorosa guida politica ritenuta necessaria per avere la meglio nella lotta in atto fra le nazioni tesa a conquistare il prestigio e l'influenza.
Per Aron infine, Weber, a differenza di altri classici, può essere considerato un nostro contemporaneo, in quanto la sua sociologia storica, lontana dalle tendenze prevalenti, ossia la microsociologia empirica à la Parsons (5):
combinando una teoria astratta dei concetti fondamentali della sociologia e un'interpretazione semi-concreta della storia universale, Max Weber si dimostra più ambizioso dei professori odierni. In questo senso appartiene forse tanto all'avvenire quanto al passato della sociologia. (6)
Questo evidente apprezzamento dell'opera weberiana nel suo complesso, non esclude da parte di Aron critiche anche severe; egli prende le distanze dal nazionalismo weberiano e critica per il suo «eccesso di realismo» la visione della politica internazionale legata rigidamente alla "Matchpolitik" (7), così come rifiuta la visione dell'assoluta arbitrarietà nella scelta dei valori, e quella, di ispirazione nietzschiana, dalla inevitabilità del conflitto mortale fra i diversi valori. In sostanza rigetta tutta la visione che Weber ha della storia e del destino umano, considerata esageratamente tragica.
Montesquieu e Tocqueville diventano punti di riferimento del pensiero di Aron, come ci dice egli stesso, non durante il suo periodo formativo, come era avvenuto per Weber, ma molto più tardi; in loro egli trova gli elementi sociologici necessari per farne uno strumento "nazionale" da contrapporre all'altra, più importante tradizione sociologica francese, quella dei Comte e dei Durkheim.
Come ho già detto nella prima parte, egli azzarda un'operazione inusuale, quella di inserire questi due autori fra i padri fondatori della sociologia.

Charles de Secondat, Baron de las Brede et de Montesquieu (1689–1755)

Riguardo a Montesquieu egli sottolinea che la sua opera ha una impostazione "sociologica" in quanto è sua intenzione conoscere scientificamente la società, rendere intellegibile la storia. e per farlo cerca di mettere ordine nel caos degli avvenimenti: 
Montesquieu esattamente come Weber vuole passare dal dato incoerente a un ordine intellegibile. Questo procedimento è quello specifico del sociologo. (8) 
Il suo metodo, storico e comparativo, ha due obiettivi:
1) di individuare le "cause profonde" dei fenomeni, ossia le cause che stanno dietro la superficie della storia e che non vanno confuse con le cause "accidentali;
2) di ricondurre l'infinita varietà degli usi, dei costumi e degli ordinamenti a un limitato numero di tipi.
Questi due obiettivi verranno fatti propri da Aron che nelle sue ricerche farà esattamente la stessa cosa: distinguere le cause accidentali da quelle profonde, e ricondurre l'eterogeneità e la varietà dei fenomeni a un ristretto numero di tipi.
L'affinità non si limita solo a questo; altri aspetti dell'opera di Montesquieu, quelli per cui è universalmente ricordato, riguardano l'attenzione posta ai rapporti fra i diversi tipi di regime politico ed il più ampio ordinamento societario, ed anche l'attenzione posta nel distinguere, valutandoli i diversi ordini politici, e attraverso la loro comparazione identificare le caratteristiche della "buona società". Entrambi questi aspetti saranno fatti propri da Aron nelle sue analisi sulla democrazia liberale sul totalitarismo.


Infine sia Montesquieu che Aron considerano come miglior regime politico quello che «assicura la moderazione del potere con l'equilibrio dei poteri»; Aron così si esprime sull'argomento:
Al di là della formulazione aristocratica della sua dottrina dell'equilibrio dei poteri sociali e della cooperazione dei poteri politici, Montesquieu ha posto il principio secondo il quale la condizione del rispetto delle leggi e della sicurezza dei cittadini risiede nel fatto che nessun potere sia illimitato. Questo è il tema essenziale della sua sociologia politica. (9)

Alexis de Tocqueville (1805 - 1859)

Passando a Tocqueville, Aron sottolinea la sua stretta parentela con l'autore de "Lo spirito delle leggi", ne condivide il metodo che:
comincia col determinare alcune caratteristiche strutturali delle società moderne e passa successivamente a fare il confronto tra forme diverse di queste stesse società (10) 
e ancora:
Tocqueville sociologo appartiene alla schiatta dei Montesquieu: combina il metodo del ritratto sociologico con la classificazione dei tipi di regime e dei tipi di società, e la propensione a costruire teorie astratte basandosi su un piccolo numero di fatti. (11)
In Tocqueville infine egli individua una concezione aperta del divenire storico che si distingue e si distanzia da quella deterministica di Comte o di Marx. La visione di Tocqueville rifiuta le ampie sintesi che nel tentativo o con l'intenzione di prevedere gli esiti storici di fatto sopprimono la storia.


Avendo individuato nella democratizzazione la caratteristica fondamentale dell'età moderna (intesa come tendenza al livellamento, all'uguaglianza delle condizioni) Tocqueville ritiene però che la democrazia possa sposarsi con la libertà (come avviene in America) oppure con il dispotismo (come rischiava di avvenire in Francia); l'esame delle condizioni che portano verso l'uno o l'altro di questi due esiti politici è il problema di Tocqueville e nella sostanza diventa anche il problema ddi Aron.
Con quest'ultimo autore vi è da parte di Aron una affinità anche sul piano del temperamento. Egli infatti non condivide, come abbiamo visto la visione tragica di Weber, e per carattere si sente più vicino a Tocqueville:
con quella sua prosa triste e pacata e con il suo liberalismo senza illusioni. (12).
Passiamo ad esaminare ora quelli che potremmo definire punti di riferimento in negativo del pensiero politico di Aron ovvero Comte, Durkheim e Pareto, e per ultimo Marx.


Auguste Comte (1798-1857)
La critica a Comte si sviluppa attraverso continui confronti fra il suo pensiero e quello di Montesquieu che consentono ad Aron di evidenziare tutti quelli che egli considera i punti deboli dell'opera comtiana. Se per Montesquieu il problema è quello, difficile di ricondurre a unità le diversità, Comte, al contrario, è a detta di Aron: il sociologo dell'unità umana e sociale, dell'unità della storia umana, respinge questa concezione dell'unità fino al punto che, alla fine, la sua difficoltà è quella inversa: gli riesce difficile ritrovare la diversità e dare ad essa un fondamento (13) 
e più avanti egli indica come contraddittoria la volontà di Comte di voler essere al tempo stesso scienziato e riformatore.
Aron individua negli aspetti principali dell'opera comtiana quella forma di "sociologismo" che egli condanna: i punti criticati sono tantissimi, ma ai nostri fini ricordo:
- la critica che Comte fa all'economia politica liberale:
-la svalutazione della politica e dell'economia come sfere d'azione autonome, a vantaggio della scienza e della morale;
- la sua concezione tecnocratica (il fondatore del positivismo appartiene alla scuola di quelli che chiamerei gli organizzatori politecnici) (14)
- la visione provvidenzialistica della storia che secondo Aron sfocia nella metafisica della religione positivistica.
Comte, così come il suo discepolo Durkheim, è un teorico del consenso, mentre secondo Aron:
Montesquieu e Tocqueville assegnano un certo primato alla politica o alla forma di stato, Marx all'organizzazione economica. La dottrina di Comte si fonda sull'idea che ogni società si regge sul'accordo delle menti. Una società esiste nella misura in cui i suoi membri condividono le stesse credenze, (15)
ma le teorie del consenso, invariabilmente finiscono per trattare il conflitto come qualcosa di patologico, di estraneo alla normalità sociale. Così facendo operano con nozioni errate di società e di storia. Anche le tante valide osservazioni che Comte formula sulla "società industriale" finiscono per essere viziate e rese meno efficaci proprio per questi errori di fondo.


Emile Durkheim (1858-1917)

Questo errore viene riscontrato da Aron, in forme assai più sofisticate, in Durkheim. Egli non ha difficoltà a riconoscerne il genio ed anche il grande valore scientifico delle sue opere principali tuttavia, il suo giudizio anche quando sembra essere positivo è velato da una evidente antipatia, che lo stesso Aron non nasconde, infatti egli scrive ne "Le tappe del pensiero sociologico": 
Nel corso di questo studio ho moltiplicato le citazioni, perché diffidavo di me stesso. Provo infatti una certa difficoltà a entrare nel modo di pensare di Durkheim, probabilmente perché non ho la simpatia necessaria alla comprensione. (16)

Egli attacca tutti i principi su cui si fonda la sociologia durkheimiana che non sto qui ad elencare; ricorderò solo la critica alla svalutazione derivazione comtiana, della politica e dell'economia dalla quale Aron parte per colpire l'aspetto che più di tutti non condivide: la concezione durkheimiana della società; una degenerazione che anziché trattare concetti come "ambiente sociale" o "società" come semplici categorie analitiche le trasforma arbitrariamente nelle cause ultime dei fenomeni, ossia secondo Aron:
 Durkheim tende a considerare l'ambiente sociale come una realtà sui generis, oggettivamente e materialmente definita, mentre esso è soltanto una rappresentazione intellettuale. (17)
Si tratta di una reificazione della "società" che porta a una specie di "sociolatria" e che è alla base dell'illusione di poter ricavare imperativi morali dalle analisi sociologiche.


Vilfredo Pareto (1848-1923)
Passando infine a Pareto troviamo, nei giudizi che nel tempo Aron esprime sulla sua opera, una evoluzione che va da una iniziale severa stroncatura negli anni giovanili ad un mutamento di toni che si fanno più pacati e indulgenti anche se nella sostanza il giudizio resta negativo.
Aron giustificherà poi la stroncatura iniziale del 1936, dovuta al clima politico ed alle tensioni prebelliche ed al collegamento esistente fra Pareto ed il fascismo.
La critica più generale all'opera del sociologo italiano è che una sociologia che tende ad occuparsi solo di regolarità di costanti storiche, rischia di perdere di vista ciò che è davvero importante :
si può ritenere [...] che alcune di queste proposizioni sono vere, che si applicano effettivamente a tutte le società e che tuttavia non colgono l'essenziale. In altre parole, ciò che è generale in materia di sociologia, non è necessariamente essenziale, ne è la cosa più interessante o importante. (18)



Un altro aspetto criticato specificamente è li psicologismo di Pareto; dice infatti Aron:
Se la prima parte del "Trattato" (19) mi pare non sufficientemente psicologica, la seconda, invece, mi sembra esserlo troppo. Una simile critica non è un paradosso. Il metodo della prima parte proprio per la sua ambizione di generalizzazione e per il rifiuto di andare sino al sentimento, si ferma alle soglie della psicologia. Ma, nella seconda parte, le élites sono caratterizzate soprattutto dalle caratteristiche psicologiche. Élites violente ed élites astute, predominio dei residui della prima o dei residui della seconda, tutte queste nozioni sono fondamentalmente di natura psicologica. (20)
Infine Aron critica anche il "machiavellismo" di Pareto, visione che egli ritiene un pervertimento del pensiero del segretario fiorentino, che conduce a una forma di cinismo che si ammanta di "realismo" e che invece realista non è. Aron rigetta qualsiasi visione fintamente realista che riduca esclusivamente a puro gioco di potere, a Matchpolitik o power politics.


Karl Marx (1818-1883)

Aron è stato fra i non marxisti uno dei più profondi conoscitori del marxismo, questo grazie proprio alla sua erudizione ed alla poliedricità della sua formazione che gli consentivano di padroneggiare tutti gli strumenti, filosofici, economici e sociologici che la lettura di un autore come Marx richiedono.
Secondo Aron di Marx è possibile fare due usi: un uso critico, che lo stesso Aron condivide, almeno in parte, e l'uso dogmatico che ne fa invece la maggior parte dei marxisti.

Egli sostiene che nell'uso che Marx fa di concetti come forze produttive, rapporti di produzione, lotta di classe non c'è nulla di sbagliato; egli afferma: 
È possibile utilizzare questi concetti in qualsiasi analisi sociologica. Personalmente, se tento di analizzare una società, sovietica o americana, parto volentieri dalle condizioni economiche e anche dallo stato delle forze di produzione, per passare ai rapporti di produzione e poi a quelli sociali. L'uso critico e metodologico di queste nozioni per comprendere e spiegare una società storica, è legittimo, tuttavia, [...] se ci si limita a utilizzare così questi concetti non si trova una filosofia della storia; si rischia di scoprire che a uno stesso grado di sviluppo delle forze produttive possono corrispondere rapporti di produzione diversi. La proprietà privata non esclude un grande sviluppo delle forze produttive; invece la proprietà collettiva può già essere presente quando le forze produttive hanno raggiunto uno sviluppo minore. In altri termini, l'uso critico delle categorie marxiste non comporta alcuna interpretazione dogmatica del corso della storia. (21)
Il problema sorge perché Marx ha collegato la socio-economia della società a una filosofia della storia. Non ha preteso solo di spiegare il funzionamento della società moderna nei suoi aspetti economico-sociali, ha creduto anche di individuare l'esito necessario del suo sviluppo e cioè l'inevitabile autodistruzione finale del capitalismo). L'errore che secondo Aron commette Marx quello di arrivare attraverso un'analisi sostanzialmente corretta, da un punto di vista metodologico, ad una interpretazione del divenire storico che lo spinge verso un approdo dogmatico.



Quindi per Aron anche se Marx fallisce i suoi scopi, le sue analisi restano preziose guide, importanti fonti di ispirazione per l'analista della società contemporanea. Questo a patto che, seguendo l'ispirazione del Capitale, ci si dedichi a studiare ed utilizzare - come Marx faceva con quella del suo tempo - la scienza economica e sociologica del Nostro tempo, cosa che non fa la maggior parte dei marxisti. Questi dice Aron si sono per lo più limitati a chiosare Marx oppure ad applicare dogmaticamente concetti marxiani nella lettura dei fatti contemporanei.
Il rispetto per il filosofo di Treviri, che traspare in ogni pagina di Aron, non ha un corrispettivo nei confronti dei marxisti. Quando parla dei suoi antichi amici parigini, dice : 
[...] ho dedicato allo studio dei meccanismi economici e sociali più tempo di quanto essi non abbiano fatto. In questo mi reputo più fedele di loro all'ispirazione di Marx. (22)
In tutta la sua vita Aron non tralascerà mai di studiare il marxismo e di dedicargli opere polemiche.
Convinto dell'importanza delle ideologie, egli è anche convinto della grande pericolosità per la società occidentale e per i suoi valori dell'ideologia marxista, che egli considera soprattutto un cavallo di Troia al servizio del totalitarismo sovietico.
Pertanto egli si assegnerà il compito di combattere con le armi della critica tutte e due le varianti del marxismo che circolano in Occidente, la variante colta fatta propria da segmenti importanti dell'élite intellettuale, dai circoli accademici della sinistra occidentale, e la variante popolare, la vulgata marxista diffusa in ambienti più vasti.



Il primo tipo di critica lo sviluppa in particolare nell'opera Marxismi immaginari che costituisce una approfondita analisi delle filosofie di moda nei circoli intellettuali parigini, il sartrismo e lo strutturalismo di Althusser. Facendo ricorso alle sue risorse di filosofo, nonché di grande conoscitore di Marx, egli dimostrerà in questo testo tutte le inconsistenze e le ragioni del sostanziale fallimento, dei tentativi, di Sartre e Merlau-Ponty, di dare fondamento esistenzialista al marxismo, e metterà anche a nudo le contraddizioni e i nonsense dello strutturalismo marxista.
Alla seconda variante quella della vulgata marxista, dedicherà molti lavori, fra i quali va ricordato L'oppio degli intellettuali su cui mi sono già soffermato nella prima parte.



In conclusione sempre secondo Panebianco, nell'ideologia marxista Aron vede, in sostanza, una religione secolare, un'eresia millenarista adottata dagli intellettuali per ignoranza e conformismo. Una ideologia che spinge chi l'abbraccia a pensare come compito dell'intellettuale la testimonianza dei buoni sentimenti "dalla parte degli oppressi", anziché la fredda e faticosa analisi della realtà che lo circonda. Il peccato più grave del marxismo intellettuale, per Aron è proprio questo: l'esibizione moralistica che va a scapito dell'intelligenza dei problemi.
Un altro aspetto interessante dell'opera di Aron è quello relativo ai suoi studi di Relazioni internazionali, una serie di opere che ci danno un quadro preciso e dettagliato dello sviluppo dei rapporti politici all'epoca della guerra fredda.
Si tratta di scritti che però non hanno solo un valore storiografico, ma che assumono spesso anche le caratteristiche di "Teoria applicata" cioè tentativi, a volte riusciti, a volte meno, di applicare, con rigore scientifico, ai problemi politici internazionali, le categorie della teoria sociologica e politologica.
Questo interesse per i problemi della politica internazionale e, come vedremo più avanti, per la guerra, viene fatta risalire da Aron stesso, nelle sue Memorie, al periodo della seconda guerra mondiale.
La sua produzione in questo settore in due filoni:
-uno più di tipo giornalistico ,che Panebianco, chiama "storiografia del presente", e che si riferiscono ad analisi di aspetti particolari della politica internazionale o anche interna; ( es: "Il grande scisma" , " Le guerre a catena" o "Speranza e paura del secolo", ecc.)
-un secondo filone invece più sociologico scientifico in cui troviamo l"aron teorico delle Relazioni Internazionali e che comprende opere di grande notorietà e di notevole interesse quali "La società industriale e la Guerra" o "Pace e guerra tra le Nazioni". Quest'ultima è considerata una delle sue opere più importanti, e detta di molti esperti del settore , è, a tutt'oggi, la più importante summa mai scritta sulle Relazioni internazionali.
Si tratta di un libro voluminoso di oltre novecento pagine, la cui illustrazione richiederebbe una esposizione a parte; citerò solo per completezza la sintesi che ne fa Panebianco:
si tratta di un libro che, mentre confuta le interpretazioni allora in voga della New Left intellettuale su questioni come l'origine della guerra fredda, i rapporti politici e economici Stati Uniti-Europa, le cause dell'intervento in Vietnam, il problema dell'imperialismo, etc, rappresenta tuttora un eccellente esempio di ricostruzione storica sulla politica estera nelle sue diverse ma collegate dimensioni, della superpotenza americana in questo dopoguerra. (23)



Clausewitz e la teoria della guerra rappresentano infine il tema che dominerà l'ultima fase del suo lavoro scientifico, studi tendenti ad approfondire il problema della guerra e dei suoi rapporti con la politica.
Lo studio dei problemi strategici relativi all'era nucleare aveva indotto necessariamente Aron ad approfondire la conoscenza di tutti i grandi pensatori militari del passato e fra questi Clausewitz in particolare. Già in Pace e guerra tra le nazioni i riferimenti a quest'ultimo sono numerosi, ma proseguendo negli studi e nelle ricerche sulle questioni strategiche contemporanee, in lui diventa pressante il bisogno di capire se era vero o meno che nell'età nucleare l'affermazione clausewitziana, da tutti citata "la guerra come continuazione della politica con altri mezzi" aveva perso il suo significato.
Nel contempo il teorico della politica è curioso di capire l'originalità di un pensiero che più di ogni altro ha saputo correlare fra loro la guerra e la politica.
Infine il filosofo è attratto da un pensatore che ha dato una dimensione filosofica al problema della guerra generando una vera e propria filosofia militare.



Questa operazione di approfondimento darà vita al già citato Penser la guerre, il suo ultimo capolavoro, che viene pubblicato nel 1976, un anno prima della scoperta di essere affetto dal grave male che sia pur lentamente lo porterà alla tomba.
Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un'opera di vaste dimensioni che richiederebbe uno studio approfondito che esula dagli scopi di questa relazione. 
Un'opera che ha come punti principali di interesse:
- la volontà di sottoporre a critica tutti i fraintendimenti del pensiero di Clausewitz che si sono avuti nelle dottrine strategiche del XIX e XX secolo;
- l'intendimento di attualizzare Clausewitz, mostrando l'utilità della sua teoria anchce nell'era atomica. Questo aspetto particolare è forse quello più innovativo, in quanto, secondo Aron, la presenza dell'arma nucleare non toglie rilevanza alla teoria clausewitziana, sia per quanto riguarda la formula arcinote del rapporto fra guerra e politica, sia per quanto riguarda la più complessa definizione trinaria della guerra, quella secondo la quale la guerra è un insieme:
- di passioni del popolo che Clausewitz chiama cieco istinto naturale;
- di scelte tattiche del condottiero militare o attività libera dell'animo;
- della ragione politica che usa la guerra per i propri fini e ne condiziona l'andamento o puro intelletto (o pura e semplice ragione).
La fine della guerra fredda e dello spettro della muta distruzione assicurata (MAD), se da una parte fanno ritenere superate queste considerazioni aroniane, non devono farci ignorare la minaccia della guerra convenzionale, animata dal nazionalismo, da uno, cioè dei tre elementi suddetti (le passioni del popolo) e devono indurci a riflettere insieme ad Aron sul pensiero di Clausewitz.


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(1) Angelo Panebianco, Introduzione alla edizione italiana di "Raymond Aron: La politica, la guerra la storia", Il Mulino, Bologna, 1992, p.39
(2) Raymond Aron, Le tappe del pensiero sociologico, Mondadori, Milano, 1972, p. 505
(3) Ibidem, p. 509
(4) Ibidem, p. 511
(5) Talcott Parsons (1902-1979) sociologo statunitense ideatore della teoria generale per l'analisi della società detta "struttural-funzionalista"
(6) Raymond Aron, op. cit., p. 515
(7) Politica di potenza, tipica della Germania bismarckiana
(8) Raymond Aron, op. cit., p. 36
(9) Ibidem, p. 51
(10) Ibidem, p. 213
(11) Ibidem, p. 250
(12) Angelo Panebianco, op. cit., p. 37
(13) Raymond Aron, op. cit., p. 83
(14) Ibidem, p. 94
(15) Ibidem, p. 90
(16) Ibidem, p. 333
(17) Ibidem, pp. 358-359
(18) Ibidem, p. 440
(19) Vilfredo Pareto, Trattato  di sociologia generale, pubblicato in Italia nel 1917 
(20) Raymond Aron, op. cit., p. 440
(21) Ibidem, p. 180
(22) Raymod Aron, Marxismi immaginari, Franco Angeli, Roma, 1977, p. 10
(23) Angelo Panebianco, op. cit., p. 77