lunedì 14 ottobre 2013

Raymond Aron: come essere liberali oggi. Parte seconda

Trent'anni fa, il 17 ottobre 1983, moriva a Parigi Raymond Aron, filosofo, sociologo, giornalista, considerato uno più autorevoli intellettuali di orientamento liberale del XX secolo.
Con questo seconda parte di un saggio a lui dedicato vogliamo rievocarne il ricordo. La prima parte può essere consultata qui.
Per capire il pensiero di Aron è necessario ricostruire il peculiare rapporto che egli mantiene con i classici del pensiero sociologico e politico. Il suo atteggiamento di fronte a qualunque problema contemporaneo è quello di chiedersi innanzitutto: come lo avrebbero interpretato i grandi autori del passato.
Questa sua preferenza traspare anche dagli scarsi riferimenti che egli fa, nelle sue opere, alle ricerche contemporanee, limitandosi a citare solo i pochi titoli universalmente giudicati importanti, mentre i riferimenti ai classici sono continui.



Si tratta di una specie di dialogo costante che si sviluppa e si definisce per affinità e opposizioni.
Le prime riguardano essenzialmente Weber, Montesquieu e Tocqueville, che Aron considera i suoi veri maestri; mentre le seconde riguardano, da un lato i maestri del positivismo francese (Comte e Durkheim) e italiano (Pareto) e dall'altro Marx.
Si tratta di scelte che sono coerenti con le posizioni espresse, nella sua principale opera filosofica "L'introduction à la philosophie de l'histoire".

 

La domanda da porsi è: cosa c'è di affine in autori come Weber, Montesquieu e Tocqueville fra di loro e con Aron stesso? Perché Aron si riconosce nelle loro opere?
Si tratta di autori che, nonostante le differenze, a volte rilevanti che esistono fra di loro, utilizzano elementi comuni nei loro metodi di indagine; in tutti e tre troviamo infatti il rifiuto del determinismo, l'avversione per le teorie mono-causali della storia, l'enfasi sulla molteplicità dei punti di vista e sulla complessità dei processi storici, la consapevolezza che la sociologia può individuare solo causalità parziali (ossia specifiche cause di specifici effetti) senza con questo precludersi la possibilità di tentare grandi sintesi: si tratti della ricostruzione di linee generali di tendenza oppure dell'individuazione dei principi di funzionamento delle diverse società storiche.
Vi è inoltre in tutti e tre un interesse particolare per la politica, intesa come dimensione centrale e primaria di qualunque organizzazione societaria, mentre rifiutano categoricamente quell'aspetto della sociologia tendente a risolvere la politica in altro da sé, tendenza che Panebianco in un suo saggio chiama "sociologismo" (1).
In tutti e tre troviamo il tentativo di dare risposte originali, in chiave storico sociologica, a interrogativi posti a suo tempo dalla filosofia politica classica, e questo è stato fatto cercando di collegare l'analisi dei regimi politici a quella della più generale evoluzione societaria.
Vi è infine in tutti una preoccupazione squisitamente politica: il futuro della libertà individuale nella società moderna.
Se confrontiamo queste caratteristiche comuni dei nostri tre autori con quanto detto su Aron nella prima parte, ci si spiega l'affinità che egli sente nei loro confronti.

Max Weber (1864 - 1920)
Per quanto riguarda Weber, troviamo in Aron un costante confronto con il suo pensiero a partire dalle prime opere scritte negli anni trenta, al rientro dal suo soggiorno di studio in Germania; ritengo tuttavia sufficiente ai nostri fini, soffermarci su la valutazione che il nostro fa della sociologia politica di Weber soprattutto ne "Le tappe del pensiero sociologico".
Max Weber appartiene alla scuola di quei sociologi il cui interessamento per la società prende le mosse dall'interessamento che essi hanno per la cosa pubblica. Come Machiavelli, egli è nel numero di quei sociologi che sono nostalgici dell'azione politica e che avrebbero voluto prendere parte alla lotta politica ed esercitare il potere. Sognava di essere uno statista; di fatto non fu un uomo politico, ma soltanto un consigliere del sovrano, naturalmente inascoltato. (2)
Della sociologia politica di Weber Aron evidenzia anche alcuni aspetti meno coerenti. In particolare osserva che mentre elabora quattro tipi azione sociale (razionale, affettivo, tradizionale o religioso e d'interesse) indica solo tre tipi di potere (legittimo carismatico e tradizionale). Questo si verifica in quanto Weber non fa mai una scelta netta fra concetti puramente analitici e concetti semi-storici e pertanto sempre secondo Aron:
le tre forme di potere, che dovrebbero essere considerate come puri e semplici concetti analitici, vengono da Weber investite contemporaneamente, di un significato storico (3) 
e queste difficoltà di ordine scientifico sono determinate dalla pressione dei problemi politici che angustiano Weber:
La sociologia politica di Weber, è inseparabile dalla situazione storica in cui visse. Politicamente nella Germania guglielmina, Max Weber era un nazional-liberale, ma non un liberale nel senso americano e, rigorosamente parlando, non fu neppure un democratico nel senso che francesi, inglesi o americani davano o danno a questo termine. Egli poneva la grandezza della nazione e la potenza dello Stato al di sopra di tutto. (4)
La relazione fra la sua sociologia politica e le sue posizioni politiche discendeva dal fatto che Weber voleva per la Germania un sistema parlamentare di tipo inglese, allo scopo di favorire l'emergere di capi carismatici eletti dal popolo in grado di sottomettere il potere burocratico, eredità negativa lasciata da Bismarck, ed in tal modo assicurare alla Germania quella vigorosa guida politica ritenuta necessaria per avere la meglio nella lotta in atto fra le nazioni tesa a conquistare il prestigio e l'influenza.
Per Aron infine, Weber, a differenza di altri classici, può essere considerato un nostro contemporaneo, in quanto la sua sociologia storica, lontana dalle tendenze prevalenti, ossia la microsociologia empirica à la Parsons (5):
combinando una teoria astratta dei concetti fondamentali della sociologia e un'interpretazione semi-concreta della storia universale, Max Weber si dimostra più ambizioso dei professori odierni. In questo senso appartiene forse tanto all'avvenire quanto al passato della sociologia. (6)
Questo evidente apprezzamento dell'opera weberiana nel suo complesso, non esclude da parte di Aron critiche anche severe; egli prende le distanze dal nazionalismo weberiano e critica per il suo «eccesso di realismo» la visione della politica internazionale legata rigidamente alla "Matchpolitik" (7), così come rifiuta la visione dell'assoluta arbitrarietà nella scelta dei valori, e quella, di ispirazione nietzschiana, dalla inevitabilità del conflitto mortale fra i diversi valori. In sostanza rigetta tutta la visione che Weber ha della storia e del destino umano, considerata esageratamente tragica.
Montesquieu e Tocqueville diventano punti di riferimento del pensiero di Aron, come ci dice egli stesso, non durante il suo periodo formativo, come era avvenuto per Weber, ma molto più tardi; in loro egli trova gli elementi sociologici necessari per farne uno strumento "nazionale" da contrapporre all'altra, più importante tradizione sociologica francese, quella dei Comte e dei Durkheim.
Come ho già detto nella prima parte, egli azzarda un'operazione inusuale, quella di inserire questi due autori fra i padri fondatori della sociologia.

Charles de Secondat, Baron de las Brede et de Montesquieu (1689–1755)

Riguardo a Montesquieu egli sottolinea che la sua opera ha una impostazione "sociologica" in quanto è sua intenzione conoscere scientificamente la società, rendere intellegibile la storia. e per farlo cerca di mettere ordine nel caos degli avvenimenti: 
Montesquieu esattamente come Weber vuole passare dal dato incoerente a un ordine intellegibile. Questo procedimento è quello specifico del sociologo. (8) 
Il suo metodo, storico e comparativo, ha due obiettivi:
1) di individuare le "cause profonde" dei fenomeni, ossia le cause che stanno dietro la superficie della storia e che non vanno confuse con le cause "accidentali;
2) di ricondurre l'infinita varietà degli usi, dei costumi e degli ordinamenti a un limitato numero di tipi.
Questi due obiettivi verranno fatti propri da Aron che nelle sue ricerche farà esattamente la stessa cosa: distinguere le cause accidentali da quelle profonde, e ricondurre l'eterogeneità e la varietà dei fenomeni a un ristretto numero di tipi.
L'affinità non si limita solo a questo; altri aspetti dell'opera di Montesquieu, quelli per cui è universalmente ricordato, riguardano l'attenzione posta ai rapporti fra i diversi tipi di regime politico ed il più ampio ordinamento societario, ed anche l'attenzione posta nel distinguere, valutandoli i diversi ordini politici, e attraverso la loro comparazione identificare le caratteristiche della "buona società". Entrambi questi aspetti saranno fatti propri da Aron nelle sue analisi sulla democrazia liberale sul totalitarismo.


Infine sia Montesquieu che Aron considerano come miglior regime politico quello che «assicura la moderazione del potere con l'equilibrio dei poteri»; Aron così si esprime sull'argomento:
Al di là della formulazione aristocratica della sua dottrina dell'equilibrio dei poteri sociali e della cooperazione dei poteri politici, Montesquieu ha posto il principio secondo il quale la condizione del rispetto delle leggi e della sicurezza dei cittadini risiede nel fatto che nessun potere sia illimitato. Questo è il tema essenziale della sua sociologia politica. (9)

Alexis de Tocqueville (1805 - 1859)

Passando a Tocqueville, Aron sottolinea la sua stretta parentela con l'autore de "Lo spirito delle leggi", ne condivide il metodo che:
comincia col determinare alcune caratteristiche strutturali delle società moderne e passa successivamente a fare il confronto tra forme diverse di queste stesse società (10) 
e ancora:
Tocqueville sociologo appartiene alla schiatta dei Montesquieu: combina il metodo del ritratto sociologico con la classificazione dei tipi di regime e dei tipi di società, e la propensione a costruire teorie astratte basandosi su un piccolo numero di fatti. (11)
In Tocqueville infine egli individua una concezione aperta del divenire storico che si distingue e si distanzia da quella deterministica di Comte o di Marx. La visione di Tocqueville rifiuta le ampie sintesi che nel tentativo o con l'intenzione di prevedere gli esiti storici di fatto sopprimono la storia.


Avendo individuato nella democratizzazione la caratteristica fondamentale dell'età moderna (intesa come tendenza al livellamento, all'uguaglianza delle condizioni) Tocqueville ritiene però che la democrazia possa sposarsi con la libertà (come avviene in America) oppure con il dispotismo (come rischiava di avvenire in Francia); l'esame delle condizioni che portano verso l'uno o l'altro di questi due esiti politici è il problema di Tocqueville e nella sostanza diventa anche il problema ddi Aron.
Con quest'ultimo autore vi è da parte di Aron una affinità anche sul piano del temperamento. Egli infatti non condivide, come abbiamo visto la visione tragica di Weber, e per carattere si sente più vicino a Tocqueville:
con quella sua prosa triste e pacata e con il suo liberalismo senza illusioni. (12).
Passiamo ad esaminare ora quelli che potremmo definire punti di riferimento in negativo del pensiero politico di Aron ovvero Comte, Durkheim e Pareto, e per ultimo Marx.


Auguste Comte (1798-1857)
La critica a Comte si sviluppa attraverso continui confronti fra il suo pensiero e quello di Montesquieu che consentono ad Aron di evidenziare tutti quelli che egli considera i punti deboli dell'opera comtiana. Se per Montesquieu il problema è quello, difficile di ricondurre a unità le diversità, Comte, al contrario, è a detta di Aron: il sociologo dell'unità umana e sociale, dell'unità della storia umana, respinge questa concezione dell'unità fino al punto che, alla fine, la sua difficoltà è quella inversa: gli riesce difficile ritrovare la diversità e dare ad essa un fondamento (13) 
e più avanti egli indica come contraddittoria la volontà di Comte di voler essere al tempo stesso scienziato e riformatore.
Aron individua negli aspetti principali dell'opera comtiana quella forma di "sociologismo" che egli condanna: i punti criticati sono tantissimi, ma ai nostri fini ricordo:
- la critica che Comte fa all'economia politica liberale:
-la svalutazione della politica e dell'economia come sfere d'azione autonome, a vantaggio della scienza e della morale;
- la sua concezione tecnocratica (il fondatore del positivismo appartiene alla scuola di quelli che chiamerei gli organizzatori politecnici) (14)
- la visione provvidenzialistica della storia che secondo Aron sfocia nella metafisica della religione positivistica.
Comte, così come il suo discepolo Durkheim, è un teorico del consenso, mentre secondo Aron:
Montesquieu e Tocqueville assegnano un certo primato alla politica o alla forma di stato, Marx all'organizzazione economica. La dottrina di Comte si fonda sull'idea che ogni società si regge sul'accordo delle menti. Una società esiste nella misura in cui i suoi membri condividono le stesse credenze, (15)
ma le teorie del consenso, invariabilmente finiscono per trattare il conflitto come qualcosa di patologico, di estraneo alla normalità sociale. Così facendo operano con nozioni errate di società e di storia. Anche le tante valide osservazioni che Comte formula sulla "società industriale" finiscono per essere viziate e rese meno efficaci proprio per questi errori di fondo.


Emile Durkheim (1858-1917)

Questo errore viene riscontrato da Aron, in forme assai più sofisticate, in Durkheim. Egli non ha difficoltà a riconoscerne il genio ed anche il grande valore scientifico delle sue opere principali tuttavia, il suo giudizio anche quando sembra essere positivo è velato da una evidente antipatia, che lo stesso Aron non nasconde, infatti egli scrive ne "Le tappe del pensiero sociologico": 
Nel corso di questo studio ho moltiplicato le citazioni, perché diffidavo di me stesso. Provo infatti una certa difficoltà a entrare nel modo di pensare di Durkheim, probabilmente perché non ho la simpatia necessaria alla comprensione. (16)

Egli attacca tutti i principi su cui si fonda la sociologia durkheimiana che non sto qui ad elencare; ricorderò solo la critica alla svalutazione derivazione comtiana, della politica e dell'economia dalla quale Aron parte per colpire l'aspetto che più di tutti non condivide: la concezione durkheimiana della società; una degenerazione che anziché trattare concetti come "ambiente sociale" o "società" come semplici categorie analitiche le trasforma arbitrariamente nelle cause ultime dei fenomeni, ossia secondo Aron:
 Durkheim tende a considerare l'ambiente sociale come una realtà sui generis, oggettivamente e materialmente definita, mentre esso è soltanto una rappresentazione intellettuale. (17)
Si tratta di una reificazione della "società" che porta a una specie di "sociolatria" e che è alla base dell'illusione di poter ricavare imperativi morali dalle analisi sociologiche.


Vilfredo Pareto (1848-1923)
Passando infine a Pareto troviamo, nei giudizi che nel tempo Aron esprime sulla sua opera, una evoluzione che va da una iniziale severa stroncatura negli anni giovanili ad un mutamento di toni che si fanno più pacati e indulgenti anche se nella sostanza il giudizio resta negativo.
Aron giustificherà poi la stroncatura iniziale del 1936, dovuta al clima politico ed alle tensioni prebelliche ed al collegamento esistente fra Pareto ed il fascismo.
La critica più generale all'opera del sociologo italiano è che una sociologia che tende ad occuparsi solo di regolarità di costanti storiche, rischia di perdere di vista ciò che è davvero importante :
si può ritenere [...] che alcune di queste proposizioni sono vere, che si applicano effettivamente a tutte le società e che tuttavia non colgono l'essenziale. In altre parole, ciò che è generale in materia di sociologia, non è necessariamente essenziale, ne è la cosa più interessante o importante. (18)



Un altro aspetto criticato specificamente è li psicologismo di Pareto; dice infatti Aron:
Se la prima parte del "Trattato" (19) mi pare non sufficientemente psicologica, la seconda, invece, mi sembra esserlo troppo. Una simile critica non è un paradosso. Il metodo della prima parte proprio per la sua ambizione di generalizzazione e per il rifiuto di andare sino al sentimento, si ferma alle soglie della psicologia. Ma, nella seconda parte, le élites sono caratterizzate soprattutto dalle caratteristiche psicologiche. Élites violente ed élites astute, predominio dei residui della prima o dei residui della seconda, tutte queste nozioni sono fondamentalmente di natura psicologica. (20)
Infine Aron critica anche il "machiavellismo" di Pareto, visione che egli ritiene un pervertimento del pensiero del segretario fiorentino, che conduce a una forma di cinismo che si ammanta di "realismo" e che invece realista non è. Aron rigetta qualsiasi visione fintamente realista che riduca esclusivamente a puro gioco di potere, a Matchpolitik o power politics.


Karl Marx (1818-1883)

Aron è stato fra i non marxisti uno dei più profondi conoscitori del marxismo, questo grazie proprio alla sua erudizione ed alla poliedricità della sua formazione che gli consentivano di padroneggiare tutti gli strumenti, filosofici, economici e sociologici che la lettura di un autore come Marx richiedono.
Secondo Aron di Marx è possibile fare due usi: un uso critico, che lo stesso Aron condivide, almeno in parte, e l'uso dogmatico che ne fa invece la maggior parte dei marxisti.

Egli sostiene che nell'uso che Marx fa di concetti come forze produttive, rapporti di produzione, lotta di classe non c'è nulla di sbagliato; egli afferma: 
È possibile utilizzare questi concetti in qualsiasi analisi sociologica. Personalmente, se tento di analizzare una società, sovietica o americana, parto volentieri dalle condizioni economiche e anche dallo stato delle forze di produzione, per passare ai rapporti di produzione e poi a quelli sociali. L'uso critico e metodologico di queste nozioni per comprendere e spiegare una società storica, è legittimo, tuttavia, [...] se ci si limita a utilizzare così questi concetti non si trova una filosofia della storia; si rischia di scoprire che a uno stesso grado di sviluppo delle forze produttive possono corrispondere rapporti di produzione diversi. La proprietà privata non esclude un grande sviluppo delle forze produttive; invece la proprietà collettiva può già essere presente quando le forze produttive hanno raggiunto uno sviluppo minore. In altri termini, l'uso critico delle categorie marxiste non comporta alcuna interpretazione dogmatica del corso della storia. (21)
Il problema sorge perché Marx ha collegato la socio-economia della società a una filosofia della storia. Non ha preteso solo di spiegare il funzionamento della società moderna nei suoi aspetti economico-sociali, ha creduto anche di individuare l'esito necessario del suo sviluppo e cioè l'inevitabile autodistruzione finale del capitalismo). L'errore che secondo Aron commette Marx quello di arrivare attraverso un'analisi sostanzialmente corretta, da un punto di vista metodologico, ad una interpretazione del divenire storico che lo spinge verso un approdo dogmatico.



Quindi per Aron anche se Marx fallisce i suoi scopi, le sue analisi restano preziose guide, importanti fonti di ispirazione per l'analista della società contemporanea. Questo a patto che, seguendo l'ispirazione del Capitale, ci si dedichi a studiare ed utilizzare - come Marx faceva con quella del suo tempo - la scienza economica e sociologica del Nostro tempo, cosa che non fa la maggior parte dei marxisti. Questi dice Aron si sono per lo più limitati a chiosare Marx oppure ad applicare dogmaticamente concetti marxiani nella lettura dei fatti contemporanei.
Il rispetto per il filosofo di Treviri, che traspare in ogni pagina di Aron, non ha un corrispettivo nei confronti dei marxisti. Quando parla dei suoi antichi amici parigini, dice : 
[...] ho dedicato allo studio dei meccanismi economici e sociali più tempo di quanto essi non abbiano fatto. In questo mi reputo più fedele di loro all'ispirazione di Marx. (22)
In tutta la sua vita Aron non tralascerà mai di studiare il marxismo e di dedicargli opere polemiche.
Convinto dell'importanza delle ideologie, egli è anche convinto della grande pericolosità per la società occidentale e per i suoi valori dell'ideologia marxista, che egli considera soprattutto un cavallo di Troia al servizio del totalitarismo sovietico.
Pertanto egli si assegnerà il compito di combattere con le armi della critica tutte e due le varianti del marxismo che circolano in Occidente, la variante colta fatta propria da segmenti importanti dell'élite intellettuale, dai circoli accademici della sinistra occidentale, e la variante popolare, la vulgata marxista diffusa in ambienti più vasti.



Il primo tipo di critica lo sviluppa in particolare nell'opera Marxismi immaginari che costituisce una approfondita analisi delle filosofie di moda nei circoli intellettuali parigini, il sartrismo e lo strutturalismo di Althusser. Facendo ricorso alle sue risorse di filosofo, nonché di grande conoscitore di Marx, egli dimostrerà in questo testo tutte le inconsistenze e le ragioni del sostanziale fallimento, dei tentativi, di Sartre e Merlau-Ponty, di dare fondamento esistenzialista al marxismo, e metterà anche a nudo le contraddizioni e i nonsense dello strutturalismo marxista.
Alla seconda variante quella della vulgata marxista, dedicherà molti lavori, fra i quali va ricordato L'oppio degli intellettuali su cui mi sono già soffermato nella prima parte.



In conclusione sempre secondo Panebianco, nell'ideologia marxista Aron vede, in sostanza, una religione secolare, un'eresia millenarista adottata dagli intellettuali per ignoranza e conformismo. Una ideologia che spinge chi l'abbraccia a pensare come compito dell'intellettuale la testimonianza dei buoni sentimenti "dalla parte degli oppressi", anziché la fredda e faticosa analisi della realtà che lo circonda. Il peccato più grave del marxismo intellettuale, per Aron è proprio questo: l'esibizione moralistica che va a scapito dell'intelligenza dei problemi.
Un altro aspetto interessante dell'opera di Aron è quello relativo ai suoi studi di Relazioni internazionali, una serie di opere che ci danno un quadro preciso e dettagliato dello sviluppo dei rapporti politici all'epoca della guerra fredda.
Si tratta di scritti che però non hanno solo un valore storiografico, ma che assumono spesso anche le caratteristiche di "Teoria applicata" cioè tentativi, a volte riusciti, a volte meno, di applicare, con rigore scientifico, ai problemi politici internazionali, le categorie della teoria sociologica e politologica.
Questo interesse per i problemi della politica internazionale e, come vedremo più avanti, per la guerra, viene fatta risalire da Aron stesso, nelle sue Memorie, al periodo della seconda guerra mondiale.
La sua produzione in questo settore in due filoni:
-uno più di tipo giornalistico ,che Panebianco, chiama "storiografia del presente", e che si riferiscono ad analisi di aspetti particolari della politica internazionale o anche interna; ( es: "Il grande scisma" , " Le guerre a catena" o "Speranza e paura del secolo", ecc.)
-un secondo filone invece più sociologico scientifico in cui troviamo l"aron teorico delle Relazioni Internazionali e che comprende opere di grande notorietà e di notevole interesse quali "La società industriale e la Guerra" o "Pace e guerra tra le Nazioni". Quest'ultima è considerata una delle sue opere più importanti, e detta di molti esperti del settore , è, a tutt'oggi, la più importante summa mai scritta sulle Relazioni internazionali.
Si tratta di un libro voluminoso di oltre novecento pagine, la cui illustrazione richiederebbe una esposizione a parte; citerò solo per completezza la sintesi che ne fa Panebianco:
si tratta di un libro che, mentre confuta le interpretazioni allora in voga della New Left intellettuale su questioni come l'origine della guerra fredda, i rapporti politici e economici Stati Uniti-Europa, le cause dell'intervento in Vietnam, il problema dell'imperialismo, etc, rappresenta tuttora un eccellente esempio di ricostruzione storica sulla politica estera nelle sue diverse ma collegate dimensioni, della superpotenza americana in questo dopoguerra. (23)



Clausewitz e la teoria della guerra rappresentano infine il tema che dominerà l'ultima fase del suo lavoro scientifico, studi tendenti ad approfondire il problema della guerra e dei suoi rapporti con la politica.
Lo studio dei problemi strategici relativi all'era nucleare aveva indotto necessariamente Aron ad approfondire la conoscenza di tutti i grandi pensatori militari del passato e fra questi Clausewitz in particolare. Già in Pace e guerra tra le nazioni i riferimenti a quest'ultimo sono numerosi, ma proseguendo negli studi e nelle ricerche sulle questioni strategiche contemporanee, in lui diventa pressante il bisogno di capire se era vero o meno che nell'età nucleare l'affermazione clausewitziana, da tutti citata "la guerra come continuazione della politica con altri mezzi" aveva perso il suo significato.
Nel contempo il teorico della politica è curioso di capire l'originalità di un pensiero che più di ogni altro ha saputo correlare fra loro la guerra e la politica.
Infine il filosofo è attratto da un pensatore che ha dato una dimensione filosofica al problema della guerra generando una vera e propria filosofia militare.



Questa operazione di approfondimento darà vita al già citato Penser la guerre, il suo ultimo capolavoro, che viene pubblicato nel 1976, un anno prima della scoperta di essere affetto dal grave male che sia pur lentamente lo porterà alla tomba.
Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un'opera di vaste dimensioni che richiederebbe uno studio approfondito che esula dagli scopi di questa relazione. 
Un'opera che ha come punti principali di interesse:
- la volontà di sottoporre a critica tutti i fraintendimenti del pensiero di Clausewitz che si sono avuti nelle dottrine strategiche del XIX e XX secolo;
- l'intendimento di attualizzare Clausewitz, mostrando l'utilità della sua teoria anchce nell'era atomica. Questo aspetto particolare è forse quello più innovativo, in quanto, secondo Aron, la presenza dell'arma nucleare non toglie rilevanza alla teoria clausewitziana, sia per quanto riguarda la formula arcinote del rapporto fra guerra e politica, sia per quanto riguarda la più complessa definizione trinaria della guerra, quella secondo la quale la guerra è un insieme:
- di passioni del popolo che Clausewitz chiama cieco istinto naturale;
- di scelte tattiche del condottiero militare o attività libera dell'animo;
- della ragione politica che usa la guerra per i propri fini e ne condiziona l'andamento o puro intelletto (o pura e semplice ragione).
La fine della guerra fredda e dello spettro della muta distruzione assicurata (MAD), se da una parte fanno ritenere superate queste considerazioni aroniane, non devono farci ignorare la minaccia della guerra convenzionale, animata dal nazionalismo, da uno, cioè dei tre elementi suddetti (le passioni del popolo) e devono indurci a riflettere insieme ad Aron sul pensiero di Clausewitz.


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(1) Angelo Panebianco, Introduzione alla edizione italiana di "Raymond Aron: La politica, la guerra la storia", Il Mulino, Bologna, 1992, p.39
(2) Raymond Aron, Le tappe del pensiero sociologico, Mondadori, Milano, 1972, p. 505
(3) Ibidem, p. 509
(4) Ibidem, p. 511
(5) Talcott Parsons (1902-1979) sociologo statunitense ideatore della teoria generale per l'analisi della società detta "struttural-funzionalista"
(6) Raymond Aron, op. cit., p. 515
(7) Politica di potenza, tipica della Germania bismarckiana
(8) Raymond Aron, op. cit., p. 36
(9) Ibidem, p. 51
(10) Ibidem, p. 213
(11) Ibidem, p. 250
(12) Angelo Panebianco, op. cit., p. 37
(13) Raymond Aron, op. cit., p. 83
(14) Ibidem, p. 94
(15) Ibidem, p. 90
(16) Ibidem, p. 333
(17) Ibidem, pp. 358-359
(18) Ibidem, p. 440
(19) Vilfredo Pareto, Trattato  di sociologia generale, pubblicato in Italia nel 1917 
(20) Raymond Aron, op. cit., p. 440
(21) Ibidem, p. 180
(22) Raymod Aron, Marxismi immaginari, Franco Angeli, Roma, 1977, p. 10
(23) Angelo Panebianco, op. cit., p. 77

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